Ricordo bene un esercizio contenuto nel manuale di statistica a Scienze Politiche di Bologna: “Assodato che l’85% dei malati di diabete fa uso di insulina, dimostrate che non è l’insulina a causare il diabete”. Questa richiesta contiene almeno due ambiguità che confondono e rendono l’esercizio quasi insolubile. La prima è che le tipologie di diabete sono differenti e fare una media dei dati non aiuta a capire l’efficacia reale del farmaco. La seconda è che, come nel quesito, non si possono confondere fra loro causa ed effetto di un elemento: qualcosa viene prima e qualcosa viene dopo. Insomma, più i numeri sono aggregati e separati dal tempo e meno spiegano la realtà, come nella poesia di Trilussa sui polli e “la Statistica”.
Eppure, a sfogliare i giornali, ci si rende conto che i giudizi, sia a favore che contro le politiche esercitate dai Governi, si basano su pochi dati, spesso su un numero solo. Il Pil è uno di questi: la crescita di uno 0,5% viene sbandierata come un successo da un lato, un segno di crisi profonda dall’altro. Altrettanto, se non peggio, i dati sull’occupazione che non è mai stata così alta secondo qualcuno e mai così precaria per altri.
Come uscire da questo apparente paradosso metodologico? Articolando il più possibile i numeri, i temi, le date e i luoghi di riferimento. A scavare sotto le medie nazionali ne esce un Paese multiforme in cui i settori produttivi, gli occupati, i disoccupati, i redditi, i servizi hanno colori di intensità ben diversa a seconda delle regioni, delle città, dei quartieri, delle frazioni, dei paesi delle aree interne, delle coste, ecc.
Non sono i dati a mancare, è la pigrizia degli analisti (o la miopia dei politici) a rendere la discussione troppo generica. Negli anni 70 ci fu un fiorire di indagini che misero in luce le difficoltà ma anche le dinamiche positive di alcuni territori. Furono scoperti i “distretti industriali” e finalmente, dopo decenni, si comprese che la distinzione netta tra aree del Nord e aree del Sud non dava conto di una realtà molto più articolata. E anche nel Nord il modello veneto era ed è molto diverso da quello emiliano e da quelli lombardo e piemontese. Confrontando ancora i dati disaggregati per aree venne individuata e descritta una “Terza Italia” che superò per sempre la polarizzazione Nord Sud.
Queste indagini basate sulle differenze territoriali (dei valori medi nazionali) dovrebbero essere riprese per tutti i dati relativi alla produzione, ai servizi, al reddito e, in una parola, al benessere economico sociale. L’Istat misura da tempo il Benessere Equo Sostenibile attraverso 153 indicatori, comprendenti qualità della vita, salute, istruzione, lavoro, ambiente, relazioni sociali e sicurezza. È una rilevazione articolata per territori di particolare originalità italiana di cui essere fieri e che va ben oltre il confronto sui Pil nazionali. Purtroppo pochi sanno che esiste e nessuno la usa per calibrare le politiche necessarie a rendere migliori le condizioni di vita della popolazione.
Insomma, l’Italia è ancora un territorio molto difforme e articolato. Per rendere più omogenee le condizioni di vita dei suoi abitanti prima vanno analizzate bene le differenze (negative e positive) e poi realizzate le politiche (reali e non solo monetarie) declinate sui territori, perché diversi sono i bisogni e diversa è la qualità dei servizi e delle attività economiche. Naturalmente le politiche socio-economiche reali sui territori (differenziate come necessario) non si possono attuare senza la ricostruzione di una filiera istituzionale di governo e di controllo che coinvolga Regioni, Province e Comuni. Come sappiamo questa filiera è da anni molto disarticolata, per non dire che non esiste (se non, a volte, nelle emergenze). Ma se le politiche economiche reali debbono essere articolate con coerenza per ciascun territorio, la filiera istituzionale di governo va ricostituita. Altrimenti le politiche economiche e sociali di cui si parla nelle sedi istituzionali a Roma sono solo titoli oppure i soliti “incentivi” o “indennizzi” che non riducono le diseguaglianze.
Come riconnettere la filiera amministrativa istituzionale italiana (dal Governo all’ultimo Comune)? Scartiamo subito l’idea di una “riforma” per legge: impiegherebbe 20 anni per essere realizzata e lascerebbe più o meno le cose come sono (si veda il precedente del “Titolo V”). Più ragionevole partire dal basso: dalle forze sociali che analizzano i diversi bisogni e costruiscono “piattaforme” da sottoporre ai governi territoriali. Se questo percorso si facesse sul territorio nazionale (e non solo sulle solite 3 Regioni più partecipate) cambierebbe lo scenario e anche l’efficacia delle politiche economiche secondo il principio di sussidiarietà (verticale e orizzontale).
Gaetano Sateriale





























