Sabato 19 ottobre le categorie del pubblico impiego di Cgil e Uil saranno protagoniste di una manifestazione in Piazza del Popolo a Roma per chiedere il rinnovo dei contratti, salari dignitosi, un piano straordinario di assunzioni, più risorse per la sanità e lo stop al precariato. Ne abbiamo parlato con la segretaria generale della Fp-Cgil, Serena Sorrentino.
Segretaria perché avete deciso di manifestare con le categorie della Uil?
Scendiamo in piazza perché crediamo che la pubblica amministrazione sia il motore del paese, fattore di coesione sociale, innovazione e garanzia dei diritti delle persone. Il patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale firmato da Cgil, Cisl e Uil con l’allora ministro Brunetta affermava proprio questo. La strada intrapresa dal governo Meloni va in direzione opposta. Nonostante le parole e la propaganda, le azioni dell’esecutivo ci dicono tutt’altro. Non si mettono risorse adeguate per i rinnovi contrattuali, non si fa un piano straordinario di assunzioni e non si pongono al centro le persone valorizzandone le capacità e offrendo loro percorsi di carriera. Il Pnrr poteva essere l’occasione per cambiare la fisionomia del paese partendo proprio dal pubblico ma così non è stato. La rimodulazione degli obiettivi ha comportato una riduzione delle risorse, e sul versante occupazionale, nel pubblico, ha prodotto solo precarietà mentre, nel privato, non ha generato nuovi posti di lavoro in relazione alla domanda di servizi pubblici.
Rimanendo in tema governo, come valuta l’interlocuzione con i ministeri di riferimento?
Semplicemente non c’è. Tanto il ministro Zangrillo che il ministro Schillaci hanno il “vizio” di decidere autonomamente, per via legislativa, su materie che dovrebbero essere oggetto della contrattazione, svilendone il ruolo e l’importanza. Quando ci convocano lo fanno a giochi fatti oppure, quando c’è il confronto, si dà priorità agli ordini professionali, come in sanità, non riconoscendo la funzione di rappresentanza del mondo del lavoro che hanno i sindacati.
Sul fronte contratto a che punto sono le trattative per il rinnovo?
La trattativa sta incontrando ostacoli di varia natura. C’è, prima di tutto, un tema economico. L’aumento salariale del 5,78% non è adeguato a recuperare il potere di acquisto dei lavoratori, che è stato eroso da un’inflazione che negli anni passata ha raggiunto anche il 16%. Il governo ha poi deciso unilateralmente di erogare un’indennità di vacanza contrattuale, con un moltiplicatore del 6,7%, che quasi la metà dei dipendenti ha ricevuto, lo scorso dicembre, in un’unica rata. Questo ha causato un innalzamento del reddito annuo che, con la dichiarazione dei redditi, si è tradotto in più tasse. Ci sono anche dei limiti nel trattare il salario accessorio con la contrattazione decentrata per dei vincoli imposti dalla riforma Madia che ha bloccato il tetto di spesa al 2016. C’è poi una questione di riconoscimento della professionalità. Nel contratto 2019-2021 avevamo dato avvio alla riforma dell’ordinamento professionale che ora rischia di arrestarsi per assenza di risorse. In questo modo non si premia l’apporto di lavoro, il merito, le competenze e non si incentiva neanche la produttività
Sarebbe anche un modo per rendere nuovamente attrattivo il posto pubblico?
Certamente. È ovvio che poi i concorsi vanno deserti o non c’è fiducia nella pubblica amministrazione. Per evitare questo ai neo assunti e a chi già vi opera bisogna offrire salari al passo con il costo della vita, percorsi di carriera, che valorizzino le competenze già presenti o che attraggano nuove professionalità. Ma per fare questo servono risorse e personale. Nel giro di due anni andranno in pensione 300mila addetti, e al 2030 avremo un milione di dipendenti in meno. Numeri che non tengono conto del mondo dell’istruzione e della ricerca. Il rischio concreto è che avremo una pubblica amministrazione sempre più fragile.
Crede che la pubblica amministrazione possa essere attrattiva anche sul piano dell’organizzazione del lavoro?
Quello che ci occorre sono bravi manager. Molte pubbliche amministrazioni non erogano solo servizi al cittadino ma anche alle imprese, alla comunità e ad altre pubbliche amministrazioni. Il vero salto di qualità sarebbe quello di riformare la pubblica amministrazione come sistema di organizzazioni governato dal mero assolvimento burocratico e da un’impostazione verticistica che si fonda sul controllo diretto, dove la valutazione della performance avviene unicamente sul fattore tempo e non su quello che si restituisce in termini di risultati attesi, la cui programmazione deve essere condivisa tra chi lavora e chi dirige. Lo smart working può essere un aiuto in questo senso. Ovviamente non dobbiamo pensare a quello emergenziale né a un mero lavoro da casa. Quello a cui pensiamo noi è quello basato sull’organizzazione del lavoro per risultati e che conferisce anche autonomia e flessibilità oraria a chi lavora. A questo si aggiunge la rivoluzione tecnologica, che non va vista solo nel passaggio dal cartaceo al digitale delle pratiche, ma in una pubblica amministrazione capace di dialogare al suo interno, nella possibilità di essere sempre più accessibile da remoto al cittadino, e poter andare incontro alle esigenze ed ai tempi delle città e degli altri settori produttivi.
La sanità è uno dei comparti più sotto pressione, tra lunghe liste di attesa, carenza di personale e aggressioni. Il governo ha annunciato nuove risorse, tra i 3,5 e i 3,7 miliardi di euro, nella prossima legge di bilancio per assumere medici e infermieri. C’è stato poi il decreto sulle liste di attesa e quello per contrastare la violenza nei nosocomi. Come valuta questi interventi?
Ovviamente ogni euro investito nella sanità è ben speso. Detto questo le risorse annunciate non sono sufficienti. Inoltre per il rinnovo del contratto, anche in considerazione dei documenti di programmazione pluriennale la svolta nel riconoscimento professionale non c’è. Il governo ha poi incrementato il finanziamento della sanità privata, quella stessa che non rinnova i contratti da anni e che crea dumping contrattuale, perché gli operatori del privato, che hanno la stessa professionalità e svolgono le stesse mansioni di quelli del pubblico, guadagnano ancor meno dei loro colleghi. Venendo alle aggressioni vanno bene le misure per garantire l’incolumità degli operatori sanitari e socio-sanitari, come il rafforzamento della vigilanza nei presidi, o l’inasprimento delle pene per chi si macchia di questi reati, ma sono azioni che non intervengono sulla prevenzione, non hanno una visione d’insieme, non intervengono sui motivi delle aggressioni. Queste sono il sintomo che il patto di fiducia tra cittadini e sanità, che tuttavia è ancora molto forte, si sta rompendo. Poco personale, lunghe attese anche nell’emergenza, scarsa diffusione di servizi di accoglienza e supporto per i familiari, portano a tensione nei confronti degli operatori. Noi abbiamo avanzato proposte al Ministro che lavorino sulla prevenzione delle aggressioni che partono innanzitutto negli investimenti sul personale e sul potenziamento della assistenza territoriale. I rischi per la propria persona uniti al fatto che in altri paesi ci sono retribuzioni e prospettive di carriera più allettanti determina la fuga dalla nostra sanità. Il decreto sulle liste di attesa non affronta il problema o lo fa nel modo sbagliato. L’incentivazione di prestazioni aggiuntive con una tassazione al 15%, si può tradurre come la prospettiva che per avere un salario dignitoso devi aumentare orario e carichi di lavoro che in sanità e nel sociosanitario sono già molto intensi e usuranti e crea ulteriore stress al personale.
Che pericoli vede nell’autonomia differenziata?
Per come è stata pensata, a risorse invariate e senza aver visto il quadro di definizione dei Lep, l’autonomia differenziata non fa che aumentare le disparità territoriali e sociali che già oggi ci sono e sulle quali anche il Presidente della Repubblica ci ha messo in guardia. È giusto rendere la pubblica amministrazione più vicina ai cittadini ma questo all’interno di una visione organica che non metta a repentaglio la coesione sociale e territoriale, un conto è il decentramento amministrativo in un contesto di unità nazionale, altro è la separazione legislativa di 23 materie delegabili che mettono in competizione i territori tra loro. Quindi i pericoli sono molti. Non tutte le regioni rivendicheranno tutte le materie che possono essere delegate dallo Stato alle Regioni o la faranno allo stesso modo. Quindi la funzione dello stato non può mai venire meno, ma sarà indebolita dallo spostamento di risorse e personale. Con l’autonomia si corre il rischio di indebolire la struttura amministrativa del paese. Nelle amministrazioni locali c’è una carenza di personale e risorse. I comuni sono molto piccoli e parcellizzati. Le province, abolite con la riforma Delrio e poi ripristinate, sono ancora fragili. E anche nella concorrenza con gli altri paesi ci ritroveremmo in una posizione di svantaggio con un paese che anziché avere politiche strategiche nazionali sarà frammentata e più fragile. È impossibile pensare che una singola regione possa competere con altri stati, soprattutto è per noi inaccettabile stabilire che la cittadinanza si basi in relazione al luogo di nascita e alla classe sociale di appartenenza su diritti diseguali. Più indeboliamo l’intervento pubblico, più l’accesso ai servizi e la garanzia dei propri diritti dipenderà dalla possibilità economica di ciascuno e del territorio in cui si vive.
Tommaso Nutarelli