I capitalisti ingrassano, perché i lavoratori stringono la cinghia. Nessun giornale di sinistra, o di centrosinistra, si azzarderebbe ormai a scrivere una cosa del genere, odorosa di marxismo e di lotta di classe. Lo fanno, in compenso, senza farsi troppi problemi, i giornali di destra. Meglio, lo fa quel concentrato intellettuale del grande capitale che sono le banche di investimento. L’ultimo rapporto della Goldman Sachs ai propri clienti più facoltosi li invita calorosamente a continuare a investire in azioni perché, dicono i suoi analisti, i margini di profitto delle aziende Usa resteranno alti e continueranno ad esserlo a lungo. I profitti di oggi, che non si vedevano da oltre 40 anni, sono del tutto “sostenibili”: gli anni ’50, dice il rapporto, sono tornati per restare.
Storicamente, la media dei profitti aziendali si aggira intorno all’8,3 per cento del Prodotto interno lordo, mentre oggi siamo al 10,1 per cento, una quota vista, per l’ultima volta, alla fine degli anni ‘60. Molti economisti sono convinti che, presto, si tornerà al trend storico. Ma sbagliano, dice Goldman Sachs. Il balzo dei profitti non è temporaneo, ma strutturale. Lo dimostra il declino della quota del lavoro sul reddito nazionale, su una traiettoria discendente di lungo periodo, che l’ha portata al 62 per cento, una percentuale che non si vedeva dalla fine degli anni ’50.
Queste tendenze, dice il rapporto, sono destinate a mantenersi a lungo, perché scaturiscono da mutamenti di lungo periodo: l’arrivo della Cina sul mercato mondiale, l’allargarsi della globalizzazione al di là del gigante cinese. Si potrebbe aggiungere anche la tecnologia, con l’avanzare della automazione e della digitalizzazione. Goldman Sachs insiste invece su un altro elemento: la scomparsa del sindacato e la conseguente diminuzione di capacità contrattuale da parte dei lavoratori. Rispetto al picco del 35 per cento, nel 1954, il tasso di sindacalizzazione delle maestranze americane è ormai sceso ad un quasi invisibile 11 per cento. Molto americano e anche un po’ risibile, visto con occhi europei.
Ma è davvero così? A stare alle statistiche dell’Ilo (l’organizzazione Onu per il lavoro) non si direbbe. In Italia (ma il dato è del 2007 ed è probabile che, poi, sia andata peggio) la percentuale di lavoratori iscritti al sindacato, sul totale degli occupati, è del 24 per cento. In Germania, la terra della potentissima IG Metall, la base del sindacato è, in realtà, anche più ristretta: il 15-16 per cento degli occupati, non troppo lontano dai livelli americani. Cosa c’è di diverso fra Europa e America? La vera differenza la fanno i contratti collettivi. Negli Usa, solo il 12-13 per cento dei lavoratori è coperto da un contratto collettivo, più o meno quanto gli iscritti al sindacato. In Germania, invece, anche se gli iscritti sono solo il 15 per cento, circa il 60 per cento dei lavoratori fa riferimento ad un contratto collettivo. In Italia arriviamo, secondo l’Ilo, al 98 per cento: la contrattazione individuale è, praticamente, sconosciuta.
In altre parole, in Italia come in Germania, il sindacato riesce a proiettare, al contrario di quanto avviene in America, un alone, un’eco assai più ampia di quanto la sua forza intrinseca giustificherebbe: come in un cartone animato in cui Pippo manovra una pesante clava, in equilibrio sempre più precario su una lastra di ghiaccio che si restringe. Potrebbe non durare a lungo: ci sono segnali ripetuti, soprattutto nei paesi della periferia europea più colpiti dall’austerità, di una progressiva americanizzazione dei rapporti di lavoro.
Sotto questo profilo, non sono abbastanza rassicuranti i risultati di un’inchiesta della Welt, un quotidiano tedesco conservatore, sull’aumento degli iscritti al sindacato in Germania. Nel 2013, scrive il giornale, sugli otto sindacati che compongono la Dgb, la Confederazione dei lavoratori, cinque hanno aumentato gli iscritti e, fra questi, ci sono sia la IG Metall (i metalmeccanici, il più grande sindacato tedesco) sia la Verdi, il sindacato dei servizi, che, da soli, rappresentano i due terzi degli iscritti alla Dgb. A suo modo, è un risultato anche storico, visto che la Verdi è riuscita finalmente, l’anno scorso, a risuperare il numero di iscritti con cui era nata, dieci anni fa. Ma sono aumenti minimi, 0,5 – 1 per cento, in una situazione in cui, dato che l’occupazione, in Germania, è in aumento, avrebbe dovuto consentire molto di più.
Maurizio Ricci