“Il 2023 è stato un anno difficile per l’industria italiana. L’inflazione e il perdurare del conflitto in Ucraina hanno annullato i segnali avuti dopo le fasi più dure della pandemia. Il governo Meloni aveva promesso una rinnovata attenzione per dare al paese una politica industriale degna di questo nome, ma senza nessun seguito”. Lo dice il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella. “Sta mancando un’idea di sviluppo, per sottovalutazione o poca sensibilità. In Italia la politica industriale deve farla il governo, perché le piccole e medie imprese, l’85% del tessuto produttivo, non ne hanno la forza. Eppure, ci sono grandi sfide per il futuro – spiega il numero uno dei meccanici della Uil – dalla transizione tecnologica e green, all’impatto sul lavoro dell’intelligenza artificiale, che non sembrano interessare all’esecutivo”. I tavoli di crisi e le vertenze aperte al Mimit sono molte, “eppure – prosegue Palombella – il piano nazionale sulla siderurgia promesso non è stato neanche presentato, e noi ci troviamo a fare i conti con la situazione dell’ex-Ilva, di Piombino e Porto Vesme, solo per citarne alcune. Anche sul comparto auto tutto tace, nonostante il 2035, data che dovrebbe segnare la fine del motore endotermico, è dietro l’angolo. Siamo davanti a una vera e propria rivoluzione, che supera un’epoca durata cento anni – sottolinea il leader della Uilm -. Gli investimenti non si fanno dall’oggi al domani, e gli altri paesi stanno già investendo molto sull’automotive. Allo stesso modo va segnalata l’assenza del governo sul comparto elettrodomestici. Servono maggiori vincoli per le multinazionali, come Electrolux e Whirpool, e non si può affidare tutto all’andamento del mercato”.
Un 2023 dunque complesso per l’industria e la manifattura segretario Palombella. Ma anche il nuovo anno si presenta ricco di appuntamenti, a cominciare dal rinnovo del contratto.
“A fine anno abbiamo rinnovato quello dell’industria artigiana, con l’intento di recuperare il potere salariale consumato dall’inflazione. Ora siamo pronti a confrontarci con Federmeccanica. Entro marzo presenteremo la piattaforma, con la volontà di rinnovare per innovare”.
Come?
“Le nostre richieste riguarderanno il rafforzamento dei salari con aumenti ben oltre l’inflazione programmata, del welfare, della formazione e il contrasto alle discriminazioni e violenze di genere. E poi la riduzione dell’orario di lavoro, che abbiamo già ottenuto in alcune realtà, come Leonardo. Questa è la vera sfida, la leva per un cambio di paradigma. Dobbiamo essere consapevoli che, al di là delle situazioni di crisi, le transizioni creeranno fisiologicamente scosse occupazionali. Diminuendo l’orario, il nostro intento è quello di tenere i lavoratori legati alle fabbriche, puntando massicciamente sulla formazione, ed evitando che lo stato e le tasche dei lavoratori si impoveriscano con la cassa integrazione e i contratti di solidarietà”.
Rimanendo sempre sul tema contratto, i metalmeccanici hanno visto a giugno un aumento di 123 euro delle retribuzioni, grazie alla clausola di salvaguardia. Un aumento che Federmeccanica ha definito non sostenibile per le imprese.
“Penso che tutte le imprese debbano puntare a far crescere gli stipendi dei propri dipendenti. Questo genera ricchezza che avvantaggia anche loro. Quando gli aumenti non vanno oltre l’inflazione vuol dire che l’economia è ferma. Sindacati e imprese devono chiedere insieme al governo un taglio della tassazione sul lavoro, che supera il 40%. Ciò comporta buste paghe più leggere e un duplice costo per le aziende. Il governo deve poi capire che i lavoratori dipendenti non sono un ricco bancomat al quale attingere senza riserve per sostenere i servizi. Noi siamo ben felici di garantire lo stato sociale con il nostro lavoro, ma è un modello che rischia di cedere”.
Prima ha fatto riferimento all’ex Ilva. A che punto siamo?
“Siamo sopra un crinale, dove, da un lato, c’è il baratro e, dall’altro, la risalita. Ormai siamo oltre le mezze misure. Gli incontri avuti a dicembre sono stati del tutto inutili e l’eccessiva prudenza del governo si è trasformata in immobilismo e mancanza di assunzione di responsabilità. Per questo abbiamo occupato la presidenza del Consiglio come gesto simbolico. È ormai chiaro che ArcelorMittal non vuole più investire in Italia, e la sua condotta ha causato più danni che benefici”.
Dunque, la strada è quella di un ritorno dell’acciaieria in mano allo stato?
“L’acciaio ovviamente è un asset strategico per un paese industriale e manifatturiero come il nostro, e la vigilanza dello stato non può mai venire meno. Ma è chiaro che nessuno si aspetta un ritorno permanente del pubblico come socio di maggioranza. In questa fase lo stato deve si riprendere in mano l’Ilva, mettere a punto un piano industriale credibile, facendosi aiutare da chi ne capisce di siderurgia, e rimetterla sul mercato. La storia ci insegna che le amministrazioni straordinarie non hanno mai dato quella marcia in più”.
Parlando di acciaio non si può non pensare anche al futuro dell’auto in Italia e a Stellantis. Teme un suo disimpegno?
“Io non parlerei di disimpegno, ma di una logica diversa rispetto a quella della Fiat. L’azienda di Torino, nella sua storia, ha sempre puntato a produrre auto diciamo popolari, che hanno fatto la storia del paese. La politica di Stellantis, inaugurata in parte anche da Marchionne in Fca, è quella di investire su veicoli elettrici di fascia alta, aumentando i guadagni e riducendo i volumi. Questo rende molto difficile arrivare all’obiettivo di 1 milione di auto prodotte in Italia, e ha ripercussioni occupazionali e sui consumatori. Quello che temo è che il governo non abbia compreso questa logica e non abbia messo a punto gli strumenti per proteggere chi produce e compra le auto. Puntare tutto sul cavallo degli incentivi non rende più come prima”.
Condivide il ricorso alle privatizzazioni come strumento di politica industriale?
“Se pensiamo alle privatizzazioni come a un modo per rendere più efficiente il sistema produttivo o dei servizi, allora può avere un senso. Ma se queste servono solo per fare cassa no. Se affermiamo che il privato funziona meglio è perché costa anche di più. Le inefficienze del pubblico sono dovute alla troppo burocrazia, alla corruzione e al malaffare. E lì dobbiamo intervenire. Non svendendo realtà determinanti per il paese, o la sanità e la scuola che hanno un valore universale e sociale inestimabile”.
Cosa ne pensa della conferenza stampa di Giorgia Meloni sui temi del lavoro?
“Che non sono stati minimamente toccati e che ancora manca la giusta attenzione verso una politica industriale. Senza questa, senza un futuro per i settori trainanti della nostra economia, non c’è ricchezza. E questo è un bel problema per un paese come il nostro, con poca crescita, la mancanza di una politica fiscale più equa e redistributiva e un debito pubblico che rende sempre più insostenibile il mantenimento dello stato sociale”.
Tommaso Nutarelli




























