Una novità, un passo avanti nel panorama ingessato delle relazioni sindacali è sempre da apprezzare. Se poi si tratta di una legge sulla partecipazione dei lavoratori alla vita dell’impresa, sancita anche dall’art.46 della Costituzione, che arriva dopo decenni di battaglie soprattutto della CISL, una tra le più importanti confederazioni sindacali del nostro paese, non può certo essere derubricata come ordinaria amministrazione.
Che nelle aziende il dialogo tra le diverse componenti del lavoro, e tra i loro rappresentanti, sia di crescente importanza è un fatto: dove viene praticato con serietà e costanza conduce a risultati notevoli, in termini di qualità, sicurezza, clima, benessere, produttività, engagement, stabilità, crescita professionale. Ma una legge di rango ordinario non è una semplice bandiera politica, benché i governi di ogni colore da diversi anni si distinguano proprio in tal senso. Continuo a credere che una nuova legge sia necessaria per a) regolare un fenomeno nuovo, sviluppatosi senza regole specifiche e perciò generatore di situazioni confuse e dannose b) stimolare comportamenti socialmente virtuosi o reprimere quelli dannosi. Si tratterebbe qui della seconda fattispecie, ma questa legge è in grado di favorire questo risultato?
Iniziando dall’impianto generale appare chiaramente che c’è un elefante nella stanza: l’organizzazione e i manager che la guidano sono del tutto ignorati, come se il mondo fosse ancora rappresentabile con le categorie ottocentesche del lavoro proletario e del capitale. In molte aziende terziarie, non necessariamente di grandi dimensioni, le persone con ruoli e funzioni manageriali possono essere il 20%, 30% o anche in misura maggiore. Sono lavoratori privi di informazioni, capacità decisionale, semplici prestatori d’opera o longa manus del “capitalista” che muove tutti i fili? I manager non sono né l’uno né l’altro, e derivano i loro ruoli e poteri, molto differenziati e diversamente retribuiti, essenzialmente da due elementi: competenza e responsabilità. Come è possibile instaurare un modello di relazioni interne che non ne tenga conto? Può esistere uno schema “parallelo” di potere in cui ogni istanza di qualche rilevanza per un gruppo o per molti lavoratori sia portata dai loro rappresentanti direttamente ai vertici dell’azienda, siano essi la persona fisica dell’imprenditore o un consiglio d’amministrazione?
Non è casuale quindi che la legge si limiti, in fondo, a consentire lo sviluppo di “buone pratiche”, che non erano certo impedite prima di essa, esprimendo l’auspicio che attraverso la loro diffusione possano poi nascere una regolamentazione più definita e stringente. Ma con ogni probabilità chi già oggi adotta buone pratiche continuerà a farlo e chi non lo fa non troverà nella legge né il deterrente né l’incentivo per cambiare qualcosa.
Il manager, specialmente ai livelli più alti, è il punto naturale di incontro, e di sintesi, tra le istanze dei diversi stakeholder dell’impresa; del / degli azionisti di maggioranza, ma anche dei finanziatori, delle istituzioni, di clienti e fornitori rilevanti, degli altri lavoratori, non certo per ultimi. Ciascuno di essi è portatore di istanza specifiche, “di parte”, sia pure esercitate di norma in modo responsabile. Da questa articolazione del confronto, dalla trasparenza e dalla professionalità può nascere qualcosa di nuovo e positivo, in tema di partecipazione.
Si poteva, e si potrà, intraprendere una via più concreta e più aderente alla realtà delle imprese contemporanee? Io credo di sì, seguendo modelli che in alcuni settori, come la finanza, hanno portato ad estendere notevolmente l’ambito delle funzioni e degli organi di controllo e di consultazione. E non è certo un caso che in Germania, unico grande paese in cui le esperienze di partecipazione dei lavoratori sono radicate e diffuse, sia al tempo stesso frequentemente applicato il cosiddetto modello duale di governance, costituito dal consiglio d’amministrazione e dal consiglio di sorveglianza. Anche in Italia nelle Fondazioni bancarie coesistono il consiglio d’amministrazione e quello d’indirizzo.
Per raggiungere cambiamenti concreti occorre definire chiaramente gli ambiti, il terreno del confronto partecipato, con modalità e linguaggio traducibili in processi aziendali: sicurezza, sviluppo professionale, valutazione delle performance, assunzioni e licenziamenti, riorganizzazioni sono una prima lista, da cui partire.
Ma è necessario anche investire sulla professionalità dei rappresentanti dei lavoratori, che non manca certamente tra i quadri sindacali, ma va chiaramente sviluppata all’interno delle aziende, con uno sforzo dai grandi numeri, per ottenere un impatto davvero rilevante.
Senza un confronto professionale adeguato la partecipazione rischia di ridursi a un ennesimo adempimento burocratico o a operazioni di “workwashing” di cui, dopo il “greenwashing” e il “pinkwashing” non sentiamo la mancanza.
Mario Mantovani