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Home - Approfondimenti - L'Editoriale - Perché al sindacato non serve un governo amico

Perché al sindacato non serve un governo amico

di Massimo Mascini
16 Dicembre 2024
in L'Editoriale
Da destra a sinistra, tutti a pezzi

CONSIGLIO DEI MINISTRI DEL PRIMO MAGGIO 2023, PIAZZA COLONNA, PALAZZO CHIGI

Non ho mai creduto che avere un governo amico sia un buon affare per un sindacato. Perché la forza deve trovarla nel consenso dei lavoratori, non dell’esecutivo. E perché un sindacato deve avere sempre le mani libere, per poter contrattare con energia e determinazione quando crede sia opportuno. E’ importante invece sapere se si ha a che fare con un governo pro labour o con un governo nemico. Perché si sa chi si ha di fronte e quindi come conviene comportarsi.

Quello di Giorgia Meloni si era presentato come un governo se non amico del sindacato, certamente pronto a un dialogo reale, concreto, perché io, diceva la leader in campagna elettorale, vengo dalla destra sociale, in quanto tale sono da sempre vicina agli interessi dei lavoratori. E assicurava che avrebbe avuto una buona interlocuzione con le confederazioni operaie, a suo avviso importanti per assicurare la coesione sociale. Le campagne elettorali, si sa, sono farcite di buone intenzioni, la realtà poi è spesso diversa. E così è stato anche con questo governo, per la prima volta guidato dalla destra.

La Meloni ha aperto subito le porte della Sala Verde a Palazzo Chigi, ma vi ha fatto trovare dentro una sequela di organizzazioni e sindacatini. Tutti hanno diritto a parlare, è vero, ma una cosa è trattare delle cose importanti in pochi, un’altra se si è in una folla numerosa e si hanno dieci minuti per dire tutto quello che si vuole dire. Torna alla mente un episodio di tanti anni fa quando Massimo D’Alema presidente del Consiglio riunì le parti sociali a Palazzo Chigi, ma quando i sindacalisti entrarono nella Sala Verde trovarono una folla, non c’erano nemmeno i posti a sedere. Sergio Cofferati e Pietro Larizza se ne andarono.

Con la Meloni le cose sono andate peggio, perché l’abitudine dall’esecutivo è stata quella di convocare sì i sindacati, ma poche ore prima della riunione del Consiglio dei ministri che avrebbe approvato decisioni già prese e immodificabili. Non si deve per forza fare concertazione, ma senza un confronto vero si ha solo un atto di informazione. Le cose sono poi andate decisamente peggio con le diverse leggi di bilancio emanate da questo esecutivo. Due sindacati, Cgil e Uil, non hanno espresso parere positivo sulle ultime tre leggi e tutte le volte hanno effettuato uno sciopero di protesta. La Cisl no, ha espresso sempre, anche quest’anno, un giudizio variegato, criticando alcune cose, apprezzandone altre, comunque non è sceso in piazza. Tutto lecito, naturalmente, nessuno possiede il verbo, sono opinioni differenti che si scontrano.

Finora il governo in carica si è presentato non proprio pro labour, ma nemmeno particolarmente ostile. Ma gli ultimi accadimenti mostrano un volto diverso. Mi riferisco a due episodi, quelli relativi al contratto Confsal-Confimi e alla normativa varata per calcolare la rappresentanza dei soggetti impegnati in appalti pubblici. In questi casi il governo ha assunto un atteggiamento che appare contrario al sindacato, come se volesse con queste iniziative indebolirlo, forse perché lo teme.

Le norme approvate dal governo per cambiare le regole da seguire negli appalti pubblici, che altro non sono che la gran parte degli investimenti pubblici effettuati dallo Stato, se approvate dal Parlamento, potrebbero togliere qualsiasi certezza nell’individuazione dei contratti da applicare ai lavoratori coinvolti in un appalto o in un subappalto. Il governo ha indicato delle regole inapplicabili o molto discutibili e questo potrebbe mettere in discussione la tenuta della contrattazione, indebolendo pesantemente il sindacato. Non è un caso se contro queste norme indicate dal governo si siano schierate tutte o quasi le confederazioni datoriali e tutte quelle operaie.

Il contratto Confsal-Confimi non è meno grave. Presenta tanti difetti, tra i quali ne svetta uno. Il contratto stabilisce infatti che nelle aziende in cui viene applicato, la rappresentanza dei lavoratori sia assicurata non dalle Rsu, ma dalle Rsa. La differenza tra queste due sigle è che le Rsu sono elette direttamente dai lavoratori, mentre le Rsa vengono nominate dai sindacati. Se le prime uscissero di scena non ci sarebbero più le elezioni da parte dei lavoratori. E non sarebbe solo un problema di democrazia, verrebbe meno uno dei due riferimenti utilizzati per calcolare la rappresentatività dei sindacati, appunto i dati delle votazioni per l’elezione dei membri delle Rsu, accanto a quelli del tesseramento. È evidente che anche questo porterebbe un indebolimento del sindacato, e tra l’altro non si potrebbe più affermare che le confederazioni rappresentano tutti i lavoratori proprio perché questi non sarebbero più chiamati a eleggere i propri rappresentanti. Eppure, il governo Meloni ha sponsorizzato con grande forza questo nuovo contratto, indicato come la soluzione ai problemi della contrattazione.

Basta tutto ciò per affermare che quello di Giorgia Meloni è un governo nemico dei sindacati? Probabilmente no, e comunque è ininfluente stabilirlo. La cosa importante è la scarsa attenzione che l’esecutivo mostra nei confronti dei lavoratori. Per dimostrarlo basterebbe il caso della ministra del Lavoro, Marina Calderone, che non si mostra molto dove si discute di lavoratori, soprattutto non è mai intervenuta per cercare di chiudere le grandi e difficili vertenze sindacali di questi anni. Viene subito alla mente il caso del contratto del commercio, che si è trascinato per anni senza che dal ministero competente si sia fatto il minimo tentativo di mettere d’accordo le parti. Laddove il compito primario del ministro del Lavoro dovrebbe essere il corretto funzionamento della contrattazione. Appunto, dovrebbe.

Massimo Mascini

Massimo Mascini

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Direttore responsabile de Il diario del lavoro

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