Il presidente dell’Inas Cisl spiega la decisione di tenere aperte le sedi del patronato per fornire assistenza nelle pratiche, ma anche ‘’ascolto’’ a chi e’ in cerca di una voce rassicurante nei giorni orribili della pandemia
Spiega Gigi Petteni che l’Inas in questi quaranta giorni orribili non ha mai chiuso le sue sedi: pur applicando tutte le misure di sicurezza possibili, cambiando le modalità di lavoro, privilegiando lo smart working, il patronato della Cisl, di cui Petteni e’ il presidente, ha scelto di restare aperto. Un presidio di assistenza, ma anche – altrettanto importante, forse addirittura di più – di ‘’ascolto’’: “abbiamo valutato, e deciso che non potevano lasciare sole le persone. Non lo facciamo mai, e in questo momento meno che mai’’.
Petteni lei e’ di Bergamo, la sua famiglia e’ lì, la sua storia sindacale nasce li’. Perfino il suo cuore di tifoso, così vicino a quella squadra, l’Atalanta, coinvolta nella maledetta partita che oggi viene indicata come uno degli inneschi della bomba virus. Pensa che ci siano stati ritardi, errori, nella gestione della crisi?
Vede, adesso è facile dire “si doveva, si poteva”. Adesso che abbiamo capito tutti. Ma all’inizio ci siamo trovati di fronte a qualcosa che non si poteva comprendere. La zona attorno a Bergamo la conosco palmo a palmo, e’ stata la mia terra sindacale. Ci sono aziende a perdita d’occhio, aziende di due o trecento persone, una attaccata all’altra, quella che Aldo Bonomi definiva ‘’la città infinita”. Con una cultura del lavoro ferrea, radicatissima.
Anche per questo il contagio ha trovato terreno facile: oggi è la zona più colpita e piegata.
I medici di famiglia dell’area di Bergamo ritengono di aver curato a domicilio almeno 64 mila persone positive, pur senza alcuna certificazione ‘’ufficiale’’ da Covid. Oggi vedo i soldati russi che accudiscono le case di riposo. Vedo le famiglie di amici o collaboratori che in pochi giorni hanno perso padri, madri, mariti, suoceri. Vedo chi ha sbarrato le finestre, per non vedere l’interminabile corteo quotidiano di ambulanze e carri funebri. E’ una tragedia immane, che spezza il cuore. Anche chi ha avuto la fortuna di uscirne vivo è come i nostri nonni che hanno visto la guerra: non saranno mai più quelli di prima. E i bambini nati in questi giorni saranno la nuova generazione davvero: una generazione che vivrà in un mondo completamente diverso da quello che abbiamo conosciuto noi.
Pensa che le misure di severissimo contenimento prese dal governo siano corrette?
Tutti i paesi che hanno cercato di adottare strade differenti dalla nostra, poi hanno dovuto fare marcia indietro. Segno che era la scelta giusta. Ma dobbiamo anche sapere che non possiamo aspettare il vaccino per tornare a vivere normalmente: dovremo imparare a convivere con il virus. Va costruito un sistema di sicurezza, dovremo convivere col misuratore di temperatura, con le mascherine. Servono strumenti adeguati, e serve la responsabilità personale del rispetto delle regole. E poi servirà una nuova sensibilità su tante cose, e una solidarietà che, per fortuna, vedo già affiorare nei comportamenti.
In questo si torna al ruolo dell’Inas. Siete sommersi di lavoro, ovviamente.
Anche grazie al fatto che possiamo avere il mandato a distanza, stiamo cercando di aiutare centinaia di migliaia di persone a risolvere pratiche. Ci sono tutte le scadenze da rispettare, e dunque da conoscere: per la Naspi, per la pensione, per infinite cose. Per questo abbiamo scelto di essere un punto di riferimento. E lo siamo diventati, devo dire, al di la’ di ogni nostra previsione. Anche grazie all’appoggio e al sostegno da parte della confederazione e della nostra segretaria Furlan. Perché ovviamente queste sono tutte cose che facciamo gratuitamente.
Come riuscite a gestire tutto, a conciliare presenze nelle sedi e sicurezza del vostro personale?
Abbiamo attivato tutte le modalità per essere operativi ed esserlo in totale sicurezza. Con le videoconferenze ci teniamo in contatto con tutti i territori. In questi giorni ne abbiamo organizzato una globale, con le nostre sedi estere, dall’Europa a New York al Venezuela, per avere un momento comune con tutti, a prescindere dai fusi orari. Vicino o lontano, quello che possiamo fare, per dare sostegno, lo facciamo.
Come la vivono questa scelta i vostri operatori?
Nei primi giorni anche noi eravamo disorientati, ma ci e’ stato chiaro subito che non potevamo lasciare sole le persone. E i nostri operatori non si sono mai tirati indietro. Una delle nostre impiegate giorni fa mi ha detto: all’inizio non ero convinta, avevo timore di spostarmi da casa per venire al lavoro, ma dopo qualche giorno ho capito l’importanza del nostro ruolo, di quello che stiamo facendo. Nei tempi buoni ci piaceva dire che il nostro obiettivo era incarnare una certa idea di servizio, oggi abbiamo capito che era arrivato il momento di praticarlo. Perche non c’e’ solo da assistere quelli che hanno perso il lavoro, le malattie professionali, le indennita’: noi dobbiamo affrontare anche il dramma di accompagnare coloro che hanno perso i loro cari, o anche rispondere a chi semplicemente cerca una voce.
E’ anche questo la funzione di ‘’ascolto’’ che sta svolgendo l’Inas?
Riceviamo un numero enorme di telefonate di persone che non solo hanno bisogno di capire, ma anche di parlare, di condividere paure ed emozioni, di raccontare la loro storia. Non e’ solo un problema di strumenti, ma di come si accompagnano le persone, di come evitare che si rinchiudano nella solitudine di questo tempo, nel silenzio. Speriamo, in questo modo, che nel nuovo modello sociale che dovremo per forza costruire si possano seminare piccoli segni di speranza.
Che bilancio trae, lei personalmente, dall’esperienza di questi quaranta giorni?
Io ho avuto la fortuna, in questa tragedia, di viverla assieme a persone straordinarie. Per cui le dico che siamo molto contenti di aver fatto questa scelta qui. Non sono giornate che nessuno di noi avrebbe scelto di vivere: ma ci sono anche tanti raggi di luce.
Nunzia Penelope



























