Più vecchi, più poveri, più soli. È quasi un racconto horror quello che l’Istat fa dell’Italia nel 2025. Chi cerca buone notizie, ne troverà ben poche nelle pagine del 33esimo Rapporto dell’Istituto, presentato mercoledì 21 maggio alla Camera dal presidente Francesco Maria Chelli. L’Istat tratteggia un paese che vede un esercito di anziani al lavoro e un esercito di giovani in fuga, le famiglie ridotte all’osso, i matrimoni in caduta libera, le nascite sempre più rarefatte. Intere zone del territorio desertificate, prive di servizi e abitate ormai solo da pochi anziani solitari. Disagi psicologici in aumento, mentre raddoppia la percentuale di chi non può più permettersi cure mediche, e arretra la capacità del servizio sanitario di effettuare prevenzione e diagnosi precoci di patologie curabili solo se prese in tempo. E ancora: l’Italia del 2025 è un paese dove il 30% delle imprese sono esposte all’invecchiamento sia degli imprenditori che dei lavoratori, e quindi non in condizioni di cogliere le opportunità dell’innovazione tecnologica. Un paese dove la cura dell’ambiente è allo sbando, con 134 miliardi persi negli anni per i danni delle varie catastrofi climatiche e con quasi il 20 per cento del valore aggiunto di industria e servizi prodotto in aree a rischio sismico, o di frane e simili.
A monte di tutto, o di quasi tutto, sta la demografia: ha ‘’una dinamica fortemente negativa’’, spiega Chelli, e tra i tantissimi numeri che la descrivono pochi lo raccontano bene come questi due: gli over ottanta sono oggi 4, 6 milioni, e per la prima volta superano i bambini under dieci, fermi a 4,3 milioni; mentre sono quasi 200 mila le persone che nel 2024 hanno lasciato l’Italia, il 20% più dell’anno precedente, e di queste 156 mila italiani, di cui 21 mila laureati. Un dato che ha avuto in questi giorni molto risalto sui media, ma che non è affatto nuovo: la stessa ‘’grande fuga’’ si ripete da tempo, anno dopo anno: trecentocinquantamila solo negli ultimi tre. Andando più indietro: nel 2016, per dire, abbiamo “perso” 115.000 persone fra i 25 e i 44 anni, ed erano già l’11% in più̀ dell’anno precedente, ed erano altrettante nel 2017, e cosi via. L’Ocse nel 2018 già segnalava come l’Italia fosse tornata ai primi posti nel mondo per emigrati, per la precisione all’ottavo, dopo il Messico e prima di Vietnam e Afghanistan. E di questa massa di expat quasi centomila, in un decennio, erano laureati, in una costante emorragia di quel ‘’capitale umano’’ che invece, avverte Chelli, è fondamentale per tenere a galla il paese.
L’altro dato che impressiona è quello delle solitudini. Le persone sole, che nel 1971 erano poco più del 10%, oggi sono il 36,2 per cento e costituiscono ‘’famiglie monopersonali’. Le coppie con figli sono appena il 28%, e un altro 19% sono coppie senza figli. Il fenomeno delle solitudini riguarda tutte le età ma soprattutto si concentra tra gli ultrasettantenni, soli nel 41% dei casi, e in maggioranza donne. D’altra parte, i matrimoni non si celebrano quasi più, sono stati appena 184mila lo scorso anno, e questo dipende un po’ dal cambiamento sociale – non è più obbligatorio avere la fede al dito- ma anche -e si torna sempre li, alla demografia- dalla riduzione costante di giovani adulti in grado di convolare a nozze. E quando pure si celebrano, i matrimoni non è detto che durino: l’Istat cita infatti la ‘’instabilità coniugale’’ tra le cause delle nuove sparute ‘’famiglie’’ di una persona sola. Per contro, due terzi dei giovani tra 18 e 34 anni vive coi genitori, oltre il 63%, (e a questo punto ci sarebbe quasi da dire ‘’per fortuna’’).
Terzo dato, che va di pari passo, quello della povertà. Riguarda più i giovani che gli anziani, più le famiglie con bambini che quelle senza figli, ed è facile spiegarlo: gli anziani ancora sono dotati di pensione, e infatti le famiglie che hanno almeno una persona over 65 al loro interno sono povere la metà rispetto alle famiglie di soli giovani. E sono meno povere le famiglie senza figli perché, appunto, sono più ‘’piccole’’ e spesso entrambi i membri che le compongono portano a casa uno stipendio. Stanno peggio di tutti le famiglie di stranieri, dove l’incidenza della povertà assoluta è del 35%, contro il 6,3% delle famiglie di italiani. Messe assieme, tuttavia, famiglie straniere e famiglie italiane in povertà assoluta superano di parecchio i due milioni.
E ancora, il lavoro. Cresce l’occupazione, ma 8 nuovi occupati su dieci hanno più di 50 anni. Proprio sul fronte della forza lavoro si addensano i maggiori pericoli del crollo demografico. Secondo le stime Onu, l’Europa è destinata a perdere da qui al 2050 il 15% delle persone tra i 15 e i 49 anni, il Giappone ne perderà il 20%, la Corea del Sud il 40%, gli Stati Uniti, senza l’apporto degli immigrati, il 20%. Quanto all’Italia, da tempo diversi istituti segnalano il buco che si verrà a creare tra breve, pari a circa 6 milioni di persone in età lavorativa in meno. Quanto alle imprese, l’Istat calcola che oltre il 30% sia a rischio passaggio generazionale: mancando, appunto, la generazione a cui passare l’azienda. È questione di “braccia”, ma anche di cervelli: se i giovani sono sempre meno, occorre che siano molto ben preparati. Mentre l’Italia è ancora in bassa classifica rispetto ai titoli di studio, considerando che un terzo della popolazione ha appena la terza media, anche se il salto è stato notevole: in trent’anni, dal 1992 al 2023, la quota di 25-34enni laureati è passata dal 7% a ben il 30%, con un picco del 37% tra le donne. Ma c’è poco da gioire se poi, una volta laureati, se ne vanno altrove.
Introducendo il Rapporto Istat a Montecitorio, uno dei relatori ha osservato che la situazione che sta vivendo l’Italia dal punto di vista demografico ‘’non può essere affrontata con strumenti ordinari’’, ed ha perfettamente ragione. Purtroppo nessuno sembra ancora aver chiaro quali sarebbero gli strumenti ‘’straordinari’’ utili al nostro caso. Però possiamo consolarci col dato forse più positivo di tutto il rapporto, e cioè: invecchiamo tantissimo, è vero, ma invecchiamo assai bene, tanto da vantare il record mondiale dei centenari (oltre 23 mila) e abbiamo del tutto recuperato l’aspettativa di vita dopo la botta della pandemia. Tanto che proprio l’Istat suggerisce di non tenere più in considerazione il dato dei 65 anni, indicato dalla statistica come ingresso ufficiale nella vecchiaia, ma spingerci serenamente almeno dieci anni avanti. Forever young.
Nunzia Penelope



























