di Pietro De Biasi, responsabile risorse umane e relazioni industriali del gruppo Riva
La questione della riforma degli assetti contrattuali, vero e proprio tema carsico nell’ambito del sistema delle relazioni industriali in Italia, è prepotentemente riemersa con la conclamata esplosione della questione salariale e delle recentissime vicende legate al solito ostico rinnovo del contratto dei metalmeccanici.
Sembra consolidarsi, ormai non solo tra le fila del mondo imprenditoriale, la convinzione che solo con un maggiore impulso alla contrattazione di secondo livello, quello aziendale, si possa avvicinare il duplice obiettivo di aumentare mediamente i livelli salariali in Italia, significativamente più bassi che negli altri paesi europei di riferimento – Germania e Francia -, e contemporaneamente adeguarli alle condizioni di produttività e redditività delle singole imprese, coniugando in maniera molto più efficace della situazione attuale, equità ed efficienza.
In realtà questa convinzione, condivisa sia dalla gran parte degli studiosi della materia ed ormai anche da una buona fetta dello stesso movimento sindacale, non è tanto sbagliata nei suoi presupposti quanto inconsistente nei suoi stessi presunti e proclamati – ma mai precisati – fondamenti teorici.
Esaminiamo brevemente l’attuale articolazione del sistema contrattuale in Italia. Il protocollo emergenziale del 1993 prevede un doppio livello di contrattazione, incardinato su un contratto nazionale che fissa livelli retributivi minimi uguali per tutte le imprese ed i lavoratori del comparto di riferimento, a prescindere dall’effettiva iscrizione della singola azienda e dei suoi dipendenti ai rispettivi sindacati; va infatti ricordato che il contratto nazionale, secondo una consolidata quanto vetusta – di diretta origine corporativa – interpretazione giurisprudenziale, è il parametro di riferimento per individuare quella retribuzione che soddisfa i requisiti minimi di dignità di cui all’art. 36 della Costituzione, ed ha pertanto un’ efficacia erga omnes. E’ poi già previsto un secondo livello di contrattazione, aziendale o territoriale, dove si dovrebbero fissare livelli retributivi, comunque superiori ai minimi, aderenti alla reale situazione reddituale e produttiva delle singole aziende.
Ora, così stando le cose, non si vede, al di là di auspici meramente retorici, quale vero impulso alla contrattazione di secondo livello possa essere realisticamente dato. Ed infatti, i salari fissati dal contratto nazionale non possono essere ragionevolmente compressi visto che l’assunto di partenza sono appunto i salari troppo bassi. Gli sgravi fiscali, generali o limitati alla retribuzione aziendale, sono certamente utili ma, per così dire, esterni alla riforma della contrattazione collettiva, cioè utili a prescindere da quale concreto assetto contrattuale esista. D’altro canto, non sì può di nuovo ragionevolmente chiedere al sindacato di rinunciare tout court al contratto nazionale per inseguire una contrattazione frantumata e dissolta nelle migliaia di medie e piccole aziende dove la rappresentanza sindacale e debole o assente. Per converso, un contratto nazionale senza una reale negoziazione salariale è una sorta di chimera, un’entità favolosa ed irreale.
In conclusione, qualsiasi rimodulazione del rapporto tra i livelli di contrattazione, consacrati dall’accordo interconfederale del 1993, resta prigioniera di margini di manovra strettissimi, tali da non consentire una apprezzabile modificazione dello status quo. Ogni dichiarazione enfatica sulla necessità di accrescere il peso della contrattazione aziendale rimane al più un mero esercizio retorico, da tutti ovviamente condiviso e perciò affatto vuoto di contenuti.
Né maggior pregio ha la proposta di allungare i tempi di vigenza del contratto nazionale da 2 a 3 anni. Questa idea, infatti, è motivata dalla considerazione che, posta la lunghezza, la difficoltà delle trattative, la litigiosità inconcludente delle parti contraenti, diluire i momenti negoziali ridurrebbe automaticamente i problemi. Ora, a parte il fatto che ridurre semplicemente il numero degli eventi contrattuali potrebbe generare l’effetto di drammatizzarli ulteriormente aggravando l’ attuale eccesso di enfasi, con contrapposizioni, e relativi ritardi, ancora più gravi degli attuali, si vede bene che il vero problema non è la tempistica contrattuale (in Germania e Francia i contratti sono generalmente annuali) ma, appunto, la litigiosità inconcludente delle parti e l’inefficienza delle soluzioni negoziali, ridurne il numero non ne muta la qualità. In realtà l’anomalia vera in Italia non sono i tempi di vigenza dei contratti collettivi ma la sovrapposizione di diversi livelli contrattuali, questa sì causa costante di conflitti tra i soggetti contraenti e di continue interferenze tra norme di diversa origine e rango.
E dunque, la sola via per cambiare radicalmente l’attuale assetto, dando davvero un impulso alla contrattazione più legata alla realtà concreta del sistema industriale, è, per apparente paradosso, quella di abolire completamente un livello negoziale, il secondo, conservando quello nazionale.
Ovviamente, il nuovo contratto nazionale dovrebbe modificare parzialmente la sua attuale natura. Privato dell’assistenza del livello sussidiario aziendale, dovrebbe incorporare una quota media della produttività e redditività del comparto; in tal modo però non potrebbe più mantenere l’attuale efficacia erga omnes ma limitarsi, come del resto nella maggior parte dei paesi europei, a regolare i rapporti tra associati alle organizzazioni sindacali datoriali e dei lavoratori. La tutela minima di tutti i lavoratori, tutela particolarmente necessaria in un paese come l’Italia, caratterizzato da miriadi di piccole aziende non raggiunte dalla rappresentanza sindacale – per non parlare del lavoro nero -, sarebbe più efficacemente e razionalmente affidata alla legge (vale la pena di ricordare che il salario minimo legale esiste in importanti paesi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia, e che è tornato al centro del dibattito anche in Germania, sulla spinta di vasti settori del sindacato e della Spd).
Nel nuovo sistema le aziende più strutturate potrebbero contrattare con le organizzazioni sindacali un contratto autonomo che incorporerebbe il contratto nazionale, al quale farebbe invece riferimento il grosso delle imprese, associate a Confindustria; mentre un’ulteriore e ridotta fascia di imprese, in crisi, o in situazioni particolari, in fase di start up, ad esempio, potrebbero legittimamente non corrispondere i salari contrattuali, negoziando condizioni di miglior favore o limitandosi a pagare il salario minimo di legge. Si otterrebbe così un sistema complessivo che, garantendo una tutela legale generalizzata a tutti i lavoratori, permetterebbe davvero di differenziare i livelli retributivi in relazione alla reale produttività del lavoro ed alla situazione reddituale delle aziende, incentivando, laddove possibile, anche la pressione negoziale del sindacato.

























