La Uil esprime “numerose perplessità e contrarietà” al progetto del Governo di privatizzare un’ulteriore quota di Poste Italiane. Dubbi che “trovano ragioni oggettive sia sul piano dell’analisi finanziaria che dal punto di vista del valore strategico”. La confederazione guidata da Pierpaolo Bombardieri e Uilposte hanno presentato un report in cui viene sottolineato che “non può essere trascurato il processo di profonda trasformazione che interessa il mercato dei servizi postali, con cui il quadro normativo e regolatorio deve oggi necessariamente misurarsi”.
Lo stesso servizio universale, di cui Poste Italiane è fornitore sulla base di un contratto di programma (2020-2024) di prossima scadenza, richiederebbe secondo la Uil sia “una ridefinizione del perimetro di azione”, in linea con il mutato contesto economico e sociale, che “una più attenta riflessione sul finanziamento degli oneri che ne derivano”.
Insomma, per la confederazione di via Lucullo si tratta di “una privatizzazione senza prospettiva”. A distanza di quasi dieci anni dal provvedimento che ha comportato la cessione a soggetti privati del 35,74% del capitale sociale di Poste, ricorda la Uil, è stata avanzata dal Governo la volontà di alienare un’ulteriore quota della partecipazione detenuta dal ministero dell’Economia, mantenendo una partecipazione dello Stato al capitale di Poste, anche per il tramite di società direttamente o indirettamente controllate dal Mef non inferiore al 35%, lasciando quindi la maggioranza dell’azionariato in mano a soggetti privati.
Tra il 2025 e il 2027 si prevede di collocare sul mercato il 29,26% delle azioni di Poste attualmente in mano al Mef, con l’obiettivo di raccogliere 4,35 miliardi di euro da destinare alla riduzione dello stock del debito pubblico e dei relativi interessi. “Sul piano finanziario anche l’analisi più cauta evidenzia l’inopportunità dell’iniziativa sia per l’irrilevanza dell’impatto sul debito pubblico – sostiene il report – sia perché la raccolta di 4,35 mld tramite, per esempio, l’emissione di Btp risulterebbe enormemente più vantaggiosa rispetto al risultato ottenuto attraverso la cessione delle azioni: da alcuni anni infatti Poste Italiane è un’impresa finanziariamente solida, con ricavi in costante crescita, capace di generare profitti (1,9 mld di utili netti nel 2023) e di distribuire dividendi (861 milioni nel 2022 e un miliardo nel 2023) che, attualmente, entrano per il 64,26% nelle casse pubbliche”.
Confrontando dunque gli effetti finanziari della vendita del 29,26% delle azioni di Poste con le perdite derivanti dai mancati introiti dei dividendi che andrebbero contestualmente agli acquirenti privati, “emerge come in soli 7 anni lo Stato perderebbe 1,58 mld di dividendi netti, riducendosi quindi l’effetto netto della vendita delle azioni – alla cui determinazione concorrono sia il costo evitato degli interessi sul debito (+806 mln) che l’eventuale compensazione degli Osu (-276 mln) – a soli 3,3 mld. Diversamente, attraverso un’emissione di Btp (a 7 anni) necessaria per finanziare 4,31 mld, lo Stato sosterrebbe il costo di 806 mln per gli interessi (a un tasso del 3% che scenderebbero a 673 a un tasso del 2,5%), trattenendo tuttavia 1,58 mld di dividendi netti, con un vantaggio netto di 779 mln (che salirebbero a 989 con un tasso del 2,5% e una dinamica dei dividendi in crescita del 5%)”.
Secondo la Uil anche proiettando questi valori nel lungo periodo, “un’operazione tuttavia astratta data la numerosità e la consistenza delle incognite”, limitando l’analisi alle sole variabili di maggiore rilievo (debito, interessi, dividendi), il rapporto rileva come il vantaggio dei 4,35 mld derivante dalla cessione azionaria tra il 2025 e il 2027 sarebbe totalmente riassorbito già nel 2040 (ovvero dalla rinuncia ai dividendi cumulati in questo intervallo), mentre considerando anche i minori interessi sul debito pubblico, i benefici si azzererebbero nel 2047, cioè in soli venti anni dalla chiusura dell’operazione, avendo peraltro perduto un asset di valore strategico.
In questa direzione si muovono anche le valutazioni in merito alla subordinata della cessione del 13,26% delle azioni (mantenendo quindi la proprietà pubblica del 51%), che replica, in scala, i risultati esposti, oltre a massimizzare l’argomento della irrilevanza degli effetti sul debito pubblico (da questa operazione si otterrebbero infatti 1,98 miliardi), attenuando invece i rischi di un management indicato dagli azionisti privati.
“Significativo appare inoltre l’argomento degli oneri di compensazione del servizio universale – prosegue lo studio – che nel periodo 2011-2019 hanno registrato uno scarto medio di 39 milioni annui tra i fondi pubblici stanziati e quanto effettivamente verificato dall’Agcom come onere del SU (il valore dello scarto risulterebbe molto più elevato considerando l’onere quantificato da Poste Italiane): una società a capitale prevalentemente privato imporrebbe infatti probabilmente un riequilibrio dei conti, che in 7 anni (in linea con le altre stime proposte) andrebbe a costare oltre 270 mln, vanificando ulteriormente il risultato finanziario dell’operazione”.
Al di là della insussistente razionalità finanziaria della nuova privatizzazione prefigurata per Poste, aggiunge il report, peraltro priva dell’argomentazione del salvataggio o del risanamento che ha accompagnato gli analoghi interventi del 1992-2016, “emergono forti contrarietà legate al contesto di trasformazione del mercato della corrispondenza e al ruolo del servizio universale in una fase di forte accelerazione del digital switch. Appare inoltre sottovalutato il ruolo strategico che la rete di Poste e la capillarità dei servizi erogati possono continuare a rappresentare per la collettività, anche in termini di presidio di prossimità, tanto più a fronte della crescente desertificazione delle attività dei servizi che caratterizza numerosi contesti urbani e aree interne”.
Un tema di forte preoccupazione riguarda anche la qualità del lavoro e i livelli occupazionali: “Già da diversi anni si assiste infatti a una contrazione del numero dei dipendenti di Poste, passati tra il 2013 e il 2022 da 143,8 mila a 121mila unità (-15,8% e -22.800 unità), così come a una loro precarizzazione.
Tra il 2016 e il 2022 l’incidenza dei lavoratori atipici di Poste, pur mantenendosi inferiore alla media degli altri contesti (anche grazie al forte ricorso alle esternalizzazioni dei servizi esecutivi), è più che raddoppiata, passando dal 3,2% del 2016 al 6,7% del 2022). Un azionariato prevalentemente privato potrebbe sostenere un’accelerazione di questi processi”.