La dico tutta nella sua, per me solo apparente, assurdità: cambiare il nostro modo di pregare, fino a qualche tempo fa, mi sembrava una personale urgenza spirituale, ora mi sono convinto che è anche una necessità per qualsiasi incisiva riforma economica e sociale si voglia tentare nel nostro paese, per avviare una lotta senza quartiere ai modelli di comportamento degenerativi che devastano l’economia e la nostra convivenza: quelli corporativi, quelli tesi alla cooptazione a vita degli amici, quelli che consentono aggregazioni che scivolano progressivamente verso il malaffare organizzato e le organizzazioni criminali. Quelli delle mance ai poveretti e dei privilegi ai potenti. Per spiegare la mia tesi tocco tre questioni: l’Italia è un paese cattolico? Che qualità ha il nostro modo di pregare? Quanto i comportamenti quotidiani si sono modellati su tali qualità e cosa si può fare per cambiare?
Si discute se l’Italia sia un paese cattolico, profondamente cattolico, o semplicemente partecipe, per tradizione e conformismo, della ritualità cattolica. Difficile dirlo quando riti e tradizioni sono così intrecciati con la storia e la vita di intere popolazioni, ma a me pare innegabile che noi partecipiamo di quella specie di cristianesimo plasmato nei secoli dalla Chiesa cattolica, diverso da quello praticato dalle chiese protestanti. Lasciamo stare la storia e guardiamoci intorno. Intere generazioni di ragazzini sono cresciuti nelle parrocchie, negli oratori, nell’azione cattolica, negli scout, nelle Acli, perché “… meglio coi preti che in mezzo alla strada”, anche se i genitori erano ferocemente anticlericali. Gli stessi che non amano i preti, ma in ogni giro turistico inseriscono interminabili visite a cattedrali e “chiesette caratteristiche”. A scuola l’ora di religione è libera, ma la quasi totalità degli alunni vi è iscritta. E ancora, è la Chiesa che definisce ciò che è bene e ciò che è male, anche se la sua morale si è misurata troppo spesso solo con la dimensione sessuale e con quella dei valori cosiddetti non negoziabili. Conosco le obiezioni: la scarsa frequentazione dei sacramenti, le messe con la partecipazione largamente prevalente di vecchietti, il divorzio, l’aborto, le frotte di ragazzi che ai raduni mondiali della gioventù cattolica praticano la più ampia la libertà sessuale? Forse i cattolici pretendono, per la loro vita, una libertà di scelta che scivola nell’opportunismo. Spesso vivono il divorzio come un fallimento ma non come un peccato, vivono l’esclusione dalla vita comunitaria come una ingiusta violenza e non si sentono di autoescludersi per questo dai benefici dei sacramenti. Il dolore emotivo psicologico e fisico dell’aborto sovrasta di gran lunga la dimensione morale, in qualche modo la redime. E quanto ai rapporti prematrimoniali, come ha detto quel vescovo, c’è sempre la confessione, come per ogni peccato.
Ma il nostro essere cattolici è definito anche dal rapporto che abbiamo con la divinità. Il nostro è un Dio che ci segue dalla nascita alla morte. Un Dio lontano però, al quale è più facile rivolgersi tramite la mediazione dei santi e, soprattutto, di Maria. Non voglio proporre qui la discussione sul Dio “personale”. Mi limito a rilevare come due grandi teologi cattolici, Teilhard de Chardin e Vito Mancuso, sulla scia delle teorie scientifiche forniteci dall’evoluzionismo, affermino verità piuttosto diverse da quelle della tradizione cattolica. Il primo, poiché per dignità si rifiuta di chiudere gli occhi di fronte al male che vede nel mondo, invoca Dio di dargli la forza per credere che la sofferenza sia uno dei suoi volti, “…affinché io non soccomba all’idea di maledire l’universo e chi l’ha creato”. Un secolo dopo Vito Mancuso afferma che se fosse il Dio personale a guidare questo mondo lui starebbe con l’ateo, perché esso appare insensibile alla sofferenza.
Comunque la dottrina cattolica, ancora oggi, è tutta con l’idea di un Dio che interviene e guida le vicende umane. Un Dio che ci ha dato la libertà ma che vede e prevede, che da un senso a tutte le cose. I santi sono, al tempo stesso, coloro che hanno storicamente meglio incarnato l’idea del divino e dunque coloro che indicano la strada per il sacro e, in quanto vicini a Dio, possono intercedere per noi.
Lo strumento per dialogare con il sacro è la preghiera che essenzialmente si fa, nel cattolicesimo vissuto, richiesta di aiuto, quasi sempre per cose concretissime: gli affetti, le prove della vita, la salute. La preghiera come supplica e domanda di benevolenza da parte di Dio e di chi è a lui vicino. La preghiera per sedare la nostra paura della solitudine e della morte, ma anche la preghiera come dialogo rassicurante con il Dio della tradizione, con il quale parlo e al quale chiedo, anche ciò che serve per la mia vita quotidiana. La preghiera perché Dio guardi me, perdoni i miei peccati ma anche tenga conto dei miei umanissimi bisogni, affettivi e materiali. Questo modo di pregare è troppo simile ad una richiesta di raccomandazione. Non è aperto agli altri, è ripiegato su se stessi, sulla propria famiglia e sui propri amici. E’ quel che accade sistematicamente nella nostra vita quotidiana. Chi può, si tiene stretti i suoi santi, gli altri si arrangino. E’ giusto, è normale, l’abbiamo imparato fin da piccoli.
I nostri sacri testi, sui quali poggiano istituzioni e relazioni sociali ed economiche, rivendicano la loro laicità. Ma bastasse una Costituzione: il fatto è che questo modo di pregare, che legittima, forse addirittura fonda, il sistema di relazioni in atto, avvolge le istituzioni con una ragnatela trasparente ma assai resistente, si ripete nei nostri comportamenti sociali, li determina e li giustifica. Lì affondano non solo le nostre radici religiose, ma anche le nostre costruzioni sociali, economiche. politiche, istituzionali. Talvolta la nostra stessa laicità si ammanta di questa cultura.. E dunque: se non cambia il nostro modo di pregare, se la Chiesa non ci aiuta a trovare una dimensione diversa per la preghiera, difficilmente potremo riformare alcunché in profondità. I cambiamenti economici e politici, necessari e possibili, sarebbero più facilmente realizzabili se innestati su un dimensione diversa della preghiera.
Anche su questo versante siamo in attesa che si manifestino le novità di Papa Francesco. Vedremo. Io penso comunque che la Chiesa dovrebbe indicarci le vie per conseguire una religiosità fatta di spiritualità crescente. Dovrebbe insegnare a pregare in un modo diverso. Forse basterebbe il “Padre Nostro”. Bisognerebbe smetterla di dire che Maria e i santi sono i nostri intermediari con il sacro. La santità tornerebbe ad essere una delle infinite possibilità dell’incarnazione dell’amore. Certo a prima vista sgomenta l’idea di un Dio freddo, che non interviene, che non mi parla e al quale non so’ più come rivolgermi. Un Dio che ha “creato” l’energia e poi ci ha affidato all’evoluzione, alla quale ha dato forma direzione e passione. Di sicuro anch’io, nei momenti difficili, ne avrò timore, ma queste sono le strade che dovrebbe percorrere la mia Chiesa, lei dovrebbe scaldarmi, smettere di trattarmi come un minorato religioso. Senza una idea diversa di religiosità e di preghiera, sarà mai possibile un cambio di relazioni sociali, di costume nel nostro paese? Sarà mai possibile il cambio di un sistema che corrode, corrompe, indebolisce, ingabbia le intere relazioni economiche e sociali?
Rino Caviglioli