di Lorenzo Bordogna – ordinario di sociologia dei processi economici e del lavoro nell’Università di Milano
Da qualche tempo la discussione sulla riforma dell’assetto della contrattazione collettiva definito dal protocollo del luglio 1993 è come un fiume carsico. Ogni tanto riemerge, accende le relazioni (verbali) tra le parti, stimola prese di posizione di questo o quel protagonista (magari in poche righe, dentro un’intervista a un quotidiano), produce ipotesi di varia natura e portata, poi il dibattito si acquieta, il fiume torna a immergersi, tutto rimane come prima.
Questo andamento non è casuale. Il sistema del 1993 ha una sua coerenza fatta di varie componenti tra loro coordinate: modificare uno o due aspetti non è un’operazione semplice e rischia di compromettere la coerenza dell’intero edificio. Più in generale, non è solo questione di ingegneria istituzionale. Come insegnava Clegg, la struttura della contrattazione collettiva, ed in particolare il livello prevalente a cui essa si svolge, è un elemento cardine di ogni sistema di relazioni industriali in cui le condizioni di lavoro siano determinate innanzitutto attraverso la regolazione congiunta tra le parti.
Essa esercita effetti rilevanti sia su vari aspetti della vita e del comportamento del sindacato (a cominciare dalle forme di governo interno e dalla distribuzione del potere tra le varie istanze organizzative, con tutte le resistenze al cambiamento che ne derivano), sia sul sistema di relazioni industriali nel suo complesso. Condiziona il ruolo che le parti possono giocare nella società più ampia e chiama in causa interessi e valori delle parti stesse, sollevando non solo problemi di efficienza ma anche di equità sociale, cruciali in ogni sistema di relazioni industriali e importanti in realtà come quella italiana caratterizzata da forti dualismi territoriali, settoriali e per classe dimensionale delle imprese. Ed ha naturalmente notevoli implicazioni macro e microeconomiche.
Alla luce di queste considerazioni, che spesso hanno implicazioni tra loro contrastanti (ciò che può essere raccomandabile sotto il profilo dell’efficienza allocativa non sempre lo è sotto il profilo dell’equità sociale), si comprende perché la discussione sull’assetto della contrattazione collettiva abbia sempre dato vita a confronti accesi e a posizioni differenziate, sia tra le parti sociali che dentro le stesse parti, imprenditori compresi (Confindustria, ad esempio, è oggi alquanto divisa circa l’ipotesi di un accentuato decentramento). Ed anche tra gli esperti, poiché, come quasi sempre nelle relazioni industriali, non si tratta di materia in cui esista una soluzione ‘tecnica’ superiore a ogni altra, ma tutte presentano dei pro e dei contra, con conseguenze diverse per i vari interessi e valori in gioco.
Tenuto conto di tutto ciò, è possibile che anche questo round di ripresa del dibattito finisca con un nulla di fatto. Specie se dovessero chiudersi senza eccessive difficoltà (e senza rotture tra i sindacati) i maggiori rinnovi contrattuali sul tappeto, a cominciare da quello dei metalmeccanici. Come già per il tema della rappresentatività, il dibattito si infiamma inevitabilmente nelle fasi in cui aumentano le difficoltà di rapporti tra le parti e dentro le parti, per poi smorzarsi una volta che si torni a un funzionamento più “normale” delle relazioni industriali. Del resto – lo ha ricordato anche Cella su questo giornale (20 settembre 2004) – esperienza storica ed analisi comparata mostrano come trasformazioni significative della struttura contrattuale non siano frequenti, raramente si decidano ‘a tavolino’, si verifichino in genere in momenti storici eccezionali, sia di grande effervescenza collettiva (1962 e 1969-70 in Italia; New Deal negli Stati Uniti), sia di forte emergenza economica (1992-93 in Italia).
Ciò non toglie, tuttavia, che negli ultimi tempi siano andate cumulandosi alcune trasformazioni rispetto alla situazione dei primi anni novanta, che rappresentano altrettante difficoltà e sfide per l’assetto contrattuale del 1993. Altre sfide derivano da esigenze, non nuove, che hanno visto aumentare la loro importanza e urgenza. Prima di considerare le possibili ipotesi di revisione presenti nel dibattito, è utile quindi ragionare su queste trasformazioni e difficoltà, o almeno su alcune di esse. Ne segnalo qui quattro, per lo più attinenti al tema economico-retributivo. Esse sono presenti nel dibattito, ma talvolta in modo implicito o tra loro sovrapposte, senza le dovute distinzioni sul piano analitico. Tenerle distinte è invece importante perché le soluzioni richieste possono essere diverse nei differenti casi, e non sempre concordanti.
a) Una prima criticità emersa negli ultimi anni si riferisce all’inadeguata difesa generale del potere d’acquisto delle retribuzioni, dovuta alla definizione di tassi di inflazione programmata irrealistici per difetto. Ciò è a sua volta legato alla sostanziale sospensione o al cattivo funzionamento delle due sessioni annuali di confronto tra governo e parti sociali sulla politica dei redditi, previste dal protocollo del 1993. L’inflazione programmata, come noto, è diversa sia da quella attesa che da quella reale: è un obiettivo di politica economica. Il governo può anche fissarla ad un livello più basso di quanto emerge nel confronto con le parti sociali, e al di sotto delle preferenze dei sindacati: rientra nelle sue prerogative, e la sua autonomia decisionale in proposito è riconosciuta nello stesso protocollo del 1993. Ma perché il Tip possa efficacemente funzionare come ordinato riferimento regolativo per l’intero sistema contrattuale occorre che sia credibile, ovvero che le autorità di politica economica, ai vari livelli, si impegnino credibilmente a comportamenti coerenti con il perseguimento di quel tasso di inflazione.
Se invece esso viene opportunisticamente utilizzato solo per creare un vincolo alla contrattazione salariale e imporre moderazione, senza comportamenti conseguenti dell’attore pubblico, allora il modello del 1993 viene minato alle radici in uno dei suoi elementi costitutivi, con effetti destabilizzanti, a cominciare dalla complicazione dei negoziati biennali per il recupero dell’inflazione reale. Un effetto che è ancora più rilevante se si combina con un sistematico e prolungato ritardo nel rinnovo dei contratti scaduti, come ultimamente nel settore pubblico (ma non solo). Tassi di inflazione programmata irrealisticamente bassi + ritardi sistematici nei rinnovi contrattuali portano inevitabilmente ad una perdita del potere d’acquisto delle retribuzioni, tradendo uno dei principali obiettivi del modello del 1993 e uno dei più importanti fattori di stabilità che esso ha assicurato (v. anche Ricciardi su questo giornale, 30 gennaio 2004). Si può aggiungere che, nel settore pubblico, ritardi sistematici nel rinnovo dei contratti erano una prassi diffusa nella seconda metà degli anni ottanta, prima della riforma del d.lgs. 29/1993 –un periodo che non sembra meritevole di rimpianti per le relazioni industriali italiane.
La soluzione a questi due problemi (sospensione delle sessioni di politica dei redditi e Tip irrealistici; violazione delle scadenze) sarebbe la rivendicazione del pieno rispetto del modello del 1993, non il suo abbandono. L’obiezione è, ovviamente, che questo dipende dal governo, e che se il governo non vuole seguire tale strada, alle parti sociali e al sindacato non resta che prenderne atto. Come e in quale direzione è tuttavia molto problematico.
La soluzione escogitata in proposito dall’accordo interconfederale dell’artigianato del marzo 2004 è interessante. La strada maestra resta quella del tasso di inflazione programmato secondo le procedure della concertazione triangolare previste dal protocollo del 1993; in assenza di questo, “si farà riferimento ad un tasso concordato tra le parti sociali sulla base degli indicatori disponibili”. E’ interessante in quanto, contro la deriva degli ultimi anni, riafferma la volontà delle parti di mantenere il modello concertativo ed un quadro coordinato per la politica contrattuale in materia economica e di tutela del potere d’acquisto delle retribuzioni. Ma l’idea dell’inflazione ‘concordata’ tra le parti, pur innovativa, è chiaramente un second best, perché per una politica dei redditi credibile, cui legare un ordinato e coordinato funzionamento delle dinamiche contrattuali e delle relazioni industriali, resta fondamentale il ruolo dell’attore pubblico.
b) Un secondo problema spesso sottolineato nel dibattito, ma che va distinto dal precedente, è l’incapacità del sistema contrattuale attuale di tenere conto selettivamente di differenze territoriali nel costo della vita, e quindi di tutelare il potere d’acquisto delle retribuzioni in maniera differenziata sul territorio. Tale preoccupazione, che ha acquisito particolare accentuazione negli anni recenti, è in parte legata anch’essa al punto precedente, ovvero all’inadeguata tutela generale del potere d’acquisto delle retribuzioni, che si avverte più fortemente dove il costo della vita è maggiore. Si tratta di una questione molto delicata, perché potrebbe suggerire la strada di differenziazioni territoriali, stabilite centralmente, dei minimi retributivi, secondo il modello delle vecchie gabbie salariali, respinto dai sindacati (sia Cgil che Cisl: v. intervista di Pezzotta in Il Sole-24 Ore, 6 aprile 2004, p. 2, favorevole ad una differenziazione salariale basata sulla produttività, ma non sul costo della vita). Inoltre sarebbe assai complicato (ma non irrisolvibile) il problema di definire l’unità territoriale da prendere a riferimento: il costo della vita è molto diverso, ad esempio, tra la provincia di Sondrio e di Milano, e probabilmente dentro una stessa provincia.
Anche su questo punto, un suggerimento interessante e innovativo è venuto dall’accordo interconfederale dell’artigianato, là dove attribuisce al secondo livello di contrattazione, quello regionale, il compito sia di ridistribuire la produttività del lavoro, sulla base di parametri concordati tra le parti a livello regionale, sia di “integrare la tutela del potere d’acquisto delle retribuzioni, in caso di scostamento tra l’inflazione presa a riferimento e l’inflazione reale all’epoca degli accordi regionali”. Con, in aggiunta, una clausola di salvaguardia del potere d’acquisto, garantita dalle parti nazionali entro la fine della vigenza contrattuale (con modalità da definirsi), per le regioni che, in assenza di accordi decentrati, non abbiano provveduto all’eventuale riallineamento (la contrattazione di secondo livello non è presente in alcune regioni, specie meridionali, lasciando scoperto circa il 30% degli occupati del comparto). Si noti, peraltro, che questa clausola riguarda la tutela del potere d’acquisto, assicurata nel protocollo del 1993 dal biennio economico nazionale, non la distribuzione della produttività: è quindi improprio parlare in proposito del riconoscimento della “esigibilità” del secondo livello di contrattazione, come talvolta si è fatto, sebbene la contrattazione di secondo livello venga certamente incentivata.
La vera novità è lo spostamento della negoziazione per il recupero biennale dell’inflazione reale dal livello nazionale a quello territoriale. Con due importanti effetti. Sul piano sostantivo, pur salvaguardando la fissazione dei minimi a livello nazionale, si apre la strada ad una possibile differenziazione delle retribuzioni, localmente concordata, legata al costo della vita, ed eventualmente legata anche ad altre condizioni del mercato del lavoro locale (sebbene l’accordo parli solo di tutela del potere d’acquisto). Sul piano dell’assetto contrattuale, si rafforza la legittimazione della contrattazione di secondo livello, sia pure limitatamente (sulla carta) alla tutela del potere d’acquisto, e quindi si rafforzano le condizioni per una sua maggiore diffusione (senza trattarsi di “esigibilità”). A questa contrattazione si può peraltro facilmente legare il ruolo ausiliario della bilateralità (per definire, ad esempio, misure condivise sull’inflazione reale a livello locale, oltre che sulla produttività, le condizioni del mercato del lavoro locale, e simili), con presumibili effetti sul rafforzamento organizzativo del sindacato.
Restano due domande. La prima è se le eventuali differenze territoriali legate al costo della vita (meglio, al recupero regionalmente differenziato dello scarto tra inflazione reale e inflazione programmata), concordate negli accordi regionali, siano cumulative nel tempo o vengano invece azzerate al momento del rinnovo dei nuovi minimi nel contratto nazionale. Il testo mostra qualche ambiguità in proposito, e la differenza non è di poco conto. La prima ipotesi (azzeramento periodico) ridimensionerebbe la portata innovativa dell’accordo dell’artigianato. La seconda confermerebbe invece l’innovazione, configurando però sbocchi forse non molto diversi da quello delle gabbie salariali, sia pure non determinate dal centro ma concordate a livello territoriale (una sorta di duplice definizione dei minimi retributivi, uno nazionale e uno regionale).
In un’intervista all’indomani dell’accordo, Guido Bolaffi, segretario generale di Confartigianato, propende per la seconda interpretazione: “spetta alla contrattazione regionale il compito di distribuire la produttività che è di quell’area e recuperare l’eventuale scarto tra il costo della vita reale di quella regione e l’inflazione programmata. Ecco che in un tempo –neanche troppo lungo- si aprirà una forbice tra salario nazionale e quelli regionali che seguiranno dinamiche proprie” (Il Sole-24 Ore, 5-3-2004, p. 19). I sindacati non sembrano invece aver sciolto per ora l’ambiguità interpretativa del testo, ma è difficile pensare che al momento della firma potessero escludere gli sviluppi prefigurati da Bolaffi. E’ probabile dunque che i dubbi si scioglieranno nella fase applicativa, eventualmente con qualche soluzione intermedia (ad esempio, non azzeramento totale bensì riduzione periodica delle differenze regionali), che lascerebbe all’accordo la sua portata innovativa.
La seconda domanda è se il nuovo modello sia strettamente legato all’esperienza ed alle caratteristiche specifiche del settore artigiano, dominato dalla presenza di piccole e piccolissime imprese e dove il secondo livello contrattuale è tradizionalmente quello territoriale/regionale (senza contrattazione aziendale), o se sia invece un modello esportabile anche ad altre realtà, in particolare all’industria. L’accoglienza di Confindustria, all’epoca guidata da D’Amato e Parisi, non è stata particolarmente entusiasta, mentre non si conosce ancora l’orientamento in proposito sotto la nuova guida di Montezemolo.
c) Il terzo problema è noto da tempo, ma non per questo meno rilevante. Esso riguarda l’insufficiente diffusione della contrattazione aziendale, secondo varie indagini estesa a non più del 50% dei dipendenti dell’industria e dei servizi, probabilmente meno. Ciò non significa necessariamente che essi non partecipino alla distribuzione dei guadagni di produttività realizzati in azienda; ma che per almeno un lavoratore su due questa distribuzione è decisa unilateralmente da parte delle imprese, oppure in una contrattazione individuale con i dipendenti, sottratta alla regolazione congiunta con il sindacato. Pur tradizionale nel sistema italiano di relazioni industriali, gli effetti negativi per il sindacato del problema in esame si sono anch’essi accentuati in assenza di una efficace tutela generale del potere d’acquisto delle retribuzioni nella contrattazione nazionale (primo punto sopra segnalato). Gli imprenditori osservano, non senza ragione, che questo problema “non è salariale, è sindacale”, riguarda cioè esclusivamente l’efficacia dell’azione del sindacato (Biglieri di Federmeccanica, in Il Sole-24Ore, 11-3-2004; analogamente Calearo, ibid., 21 settembre 2004 ). Resta che per il sindacato è oggettivamente difficile raggiungere le piccole e piccolissime aziende una ad una, mentre è assai improbabile che la cosiddetta “esigibilità” del secondo livello, da qualche parte rivendicata, venga mai accettata dalle imprese.
Secondo alcuni, una soluzione potrebbe essere quella suggerita dall’accordo dell’artigianato: se il recupero biennale dell’inflazione reale avvenisse a livello territoriale, sarebbe più facile in quei negoziati prendere in conto (un po’ surrettiziamente) anche le condizioni locali del mercato del lavoro e della produttività. E’ chiaro però che questo, nell’industria, introdurrebbe di fatto un terzo livello di contrattazione, che non entusiasma gli imprenditori (mentre, come noto, nell’artigianato non c’è contrattazione aziendale, ed il secondo livello è solo quello territoriale).
Un altro tentativo di soluzione è quello già esplorato senza successo in passato dai sindacati metalmeccanici e ora di nuovo in discussione, ovvero di chiedere nel rinnovo del contratto nazionale, oltre agli aumenti retributivi per la tutela del potere d’acquisto, una quota riferibile ad una sorta di produttività (media) del settore per i lavoratori privi di contrattazione aziendale, riassorbibile negli altri casi. I sindacati sono però fortemente divisi sul periodo da prendere a riferimento, se l’intero quadriennio 2003-06 o solo il biennio 2005-06, come vorrebbe la Fiom, con l’effetto che questa quota andrebbe a gran parte dei dipendenti del settore e molte imprese si troverebbero a ‘pagare’ due volte. Al di là delle divisioni sindacali, occorrerebbe naturalmente il consenso delle imprese, che in passato non c’è stato e che sarebbe probabilmente ancora più difficile da ottenere per i sindacati se dovesse prevalere l’interpretazione della Fiom (bruciando così, essenzialmente per difendere l’esperienza dei pre-contratti, le potenzialità innovative della proposta).
d) Un’ulteriore fonte di tensione nel modello del 1993 è rappresentata infine dai processi di decentramento amministrativo e fiscale degli ultimi anni e dalla riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, con possibile revisione. Tensioni particolarmente forti soprattutto in alcuni comparti del pubblico impiego, sanità e autonomie locali in testa. Nella sanità, in particolare, alcune Regioni (in particolare la Lombardia), sia sul versante datoriale che di alcuni sindacati, premono per una maggiore autonomia rispetto al livello nazionale, se non addirittura per una competenza contrattuale esclusiva. Tensioni simili si sono manifestate anche nella vertenza del trasporto locale, sebbene apparentemente rientrate una volta raggiunto l’accordo a livello nazionale. E’ una questione che chiama in causa non solo i rapporti Stato-Regioni, ma anche quelli tra le Regioni (si tratterebbe, per prima cosa, di verificare se è una spinta generale o solo di una Regione particolare), e quelli, non meno problematici, tra le istanze regionali/locali dei sindacati e organizzazioni nazionali (v. ad esempio il documento comune inviato nel luglio 2004 dai sindacati nazionali della funzione pubblica di tutte e tre le confederazioni ai segretari generali di Cgil-Cisl-Uil, sostanzialmente favorevole alla conferma del modello contrattuale attuale e nettamente contrario ad un livello regionale di contrattazione, che esproprierebbe la contrattazione aziendale e, nella sanità, romperebbe l’unitarietà del Ssn). A parte questo (che non è poco), si tratterebbe poi di verificare se tali tensioni sono accomodabili dentro il modello contrattuale vigente o ne richiedono una revisione rilevante, anche formale.
In conclusione, sembra difficile negare che importanti trasformazioni sono intervenute rispetto alle condizioni del 1993, e altre esigenze si siano fatte più urgenti. Quelle sopra ricordate sono solo alcune – parte congiunturali (politica corrente del governo), parte strutturali (introduzione dell’euro; decentramento amministrativo e fiscale, federalismo) – con implicazioni prevalentemente sulla tematica economica e retributiva. Altre se ne potrebbero aggiungere, legate ad esempio alle esigenze dello sviluppo locale richiamate da Accornero (Diario del Lavoro 24-9-2004), o all’applicazione del d. lgs. 276/2003, con i suoi molteplici rimandi alla contrattazione collettiva, non solo nazionale. Tutte comportano tensioni e sfide di un certo rilievo per il funzionamento del modello contrattuale del 1993.
E’ da esplorare innanzitutto se queste trasformazioni, e più o meno nuove esigenze, possano trovare risposta nelle modifiche a suo tempo (1997) suggerite dalla Commissione Giugni. Modifiche invero per nulla marginali, pur nella logica di un decentramento controllato del sistema, ma rimaste inattuate. O se richiedano invece soluzioni aggiuntive o diverse, ad esempio sulla linea di quelle suggerite dall’importante accordo dell’artigianato. La commissione unitaria di Cgil, Cisl e Uil dovrà esercitare non poca fantasia per comporre i vari pezzi del mosaico in un tutto che non disperda la coerenza del modello vigente. Dovrà superare i contrasti tra i vari sindacati e tra i diversi livelli organizzativi dentro il medesimo sindacato, forse ancora più problematici dei primi, nonché guadagnare l’indispensabile consenso degli imprenditori, prendendo in conto in qualche misura le loro convenienze (bisogna essere in due per ballare il tango, ricorda Cella).
Certo è che si tratta di un puzzle assai difficile da comporre. I problemi e le domande per un serio aggiustamento non mancano; le soluzioni sono ancora incerte o controverse.