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Produttività e pandemia

Luigi Marelli
Novembre16/ 2020

In questi giorni, come del resto tutti gli anni, l’Istat ha pubblicato i dati relativi all’andamento della produttività in Italia.

I dati pubblicati sono la conferma che il nostro paese, da ormai molti anni, si trova in una sostanziale stagnazione dei fattori produttivi.

Nel periodo più lungo, considerato dall’analisi in oggetto, che va dal 1995 al 2019 (quasi un quarto di secolo) la produttività del lavoro in Italia è cresciuta dello 0,3% contro 1,6% della media europea, in buona sostanza sono circa 25 anni che il nostro paese arranca, non cresce e certo non diventa più competitivo.

Solo considerando il 2019, la produttività del lavoro, intesa come valore aggiunto per ogni ora lavorata è diminuita del 0,4%. Peggio ha fatto la produttività del capitale, intesa come rapporto tra valore aggiunto e input di capitale, che è diminuita del 0,8%.

Di conseguenza, nello stesso periodo la produttività totale dei fattori è diminuita del 0.5%.

E’ evidente che, in questo contesto, non si può immaginare alcuna seria politica di sviluppo se prima non vengono rimossi quegli ostacoli che impediscono una adeguata crescita della produttività, sia dei singoli fattori (lavoro e capitale) sia del sistema nel suo complesso.

Tuttavia appena si affronta questa discussione si assiste, anche da parte di autorevoli commentatori, alla riproposizione di una “giaculatoria” di considerazioni che vanno dalla necessità di nuove politiche della formazione del capitale umano fino alla ormai scontata riforma della pubblica amministrazione con tanto di superamento degli impedimenti burocratici.

Ovviamente prese a sé queste riflessioni sono tutte vere ma come mai le stesse da più di 20 anni non hanno determinato una vera svolta, una inversione di tendenza?

Le ricette ci sono, più o meno corrette.

Cosa manca? Manca la capacità di individuare priorità di intervento, progetti specifici e concreti, modalità di controllo dello stato di avanzamento degli stessi e infine, ma non ultimo, la definizione di una vera ”corsia preferenziale” per consentire che questi progetti non si perdano nel “porto delle nebbie” di una burocrazia autoreferenziale.

Cosa centra la pandemia in atto con tutto ciò? Penso che essa abbia contribuito a far emergere, certo impietosamente, tutti le precarietà del nostro sistema sociale e produttivo, una sorta di enorme “crash test” che ha sottoposto le varie funzioni e le varie articolazioni del sistema a misurarsi con una situazione estrema per definizione.

Sulla base di questa analisi, alcuni processi hanno retto e funzionato anche bene, si pensi a tutta la catena logistica di approvvigionamento alimentare ma non solo, anche le attività manifatturiere, hanno mostrato un elevato grado di resilienza, tant’è che ai primi cenni di ripresa hanno dimostrato di sapersi riagganciare a piccoli ma significativi trend di sviluppo.

Cosa invece non ha funzionato? Per grandi linee tutto il comparto dei servizi, generalmente inteso. Non ha funzionato, almeno come avrebbe dovuto, il sistema di approvvigionamento degli aiuti economici, non che mancassero i soldi, anzi, ma non c’era nessuna procedura perché arrivassero in tempi certi ai soggetti che ne necessitavano.

I ritardi, in alcuni casi davvero gravi, per l’erogazione della cassa integrazione ha segnalato “colli di bottiglia” importanti tra decisione politica ed effettività della erogazione dei sussidi.

La confusione poi sui trasporti pubblici come quella regnante nella sanità, confusione determinata da un mai chiarito rapporto tra Stato, Regioni ed enti locali è un elemento da affrontare decisamente con una logica bi-partisan.

Nessun gestore della cosa pubblica potrà rimuovere la pessima esperienza offerta in questo periodo dai vari soggetti istituzionali, non credo, ad esempio, che strumenti ordinari come la Conferenza Stato/Regioni o l’ANCI (associazione comuni italiani) abbiano dato buona prova di funzionamento. Assenza totale di protocolli, di procedure e di responsabilità precise (chi fa che cosa) pare abbiano contraddistinto l’esperienza di questo periodo.

Volendo però trovare un minimo comun denominatore e rischiando ovviamente una sommaria semplificazione nell’analisi, c’è a mio parere un elemento che accomuna le esperienze positive e quelle negative riscontrate in questo periodo “emergenziale”.

Ciò che ha retto meglio e ha continuato a performare adeguatamente, sono state quelle attività e quei settori abituati a convivere con la logica della competitività, meglio ancora con quella imposta dai mercati aperti.

I settori “protetti” invece hanno evidenziato tutti i loro limiti, fino a collassarsi, anche nella semplice individuazione delle procedure da seguire.

La produttività è una regola che impone quotidianamente piccoli ma decisivi miglioramenti di processo e di prodotto/servizio reso. Lo sanno bene coloro che si occupano di organizzazione nelle aziende, e con loro le OOSS che quotidianamente sono chiamate a contribuire alla ricerca dell’equilibrio sociale più adeguato a consentire a questi processi di implementarsi correttamente.

Questa regola non è però una “categoria dello spirito” è una dura ma inevitabile legge di mercato. Ignorarla, o peggio ancora, demonizzarla è solo un modo per procrastinare i limiti di un modello di gestione nel quale paradossalmente sono i ceti che si vogliono proteggere che pagheranno il costo sociale ed economico più alto.

Luigi Marelli

Luigi Marelli