di Ida Regalia, Università di Milano
1. Le relazioni industriali non si basano solo sulla contrattazione collettiva, e l’azione sindacale non si esaurisce solo in essa. Ma certamente nella tradizione italiana ed europea la contrattazione collettiva è sempre stata al centro dei modi di regolare il lavoro.
È il cuore delle relazioni industriali e dell’iniziativa sindacale. È metodo insuperabile di superamento di problemi e controversie e definizione delle condizioni d’impiego: un metodo basato sulla ricerca e il raggiungimento dell’accordo tra parti con interessi distinti e divergenti, attraverso la disponibilità a costruire con autonomia e intelligenza, anche per prove ed errori e successive verifiche e riaggiustamenti, soluzioni temporanee, ma con valore normativo e che impegnano le parti.
Ma come debba essere strutturata, quali i temi che è bene vi vengano affrontati, in quali modi e a favore di chi, è qualcosa che non è dato una volta per tutte, ma su cui occorre di tanto in tanto riflettere ed intervenire per aumentarne l’efficacia e l’equità.
Crediamo che oggi sia uno di quei momenti. A partire quindi da una breve premessa sulle caratteristiche e la portata del mutamento in atto, in queste note delineiamo alcuni dei problemi che oggi appaiono allo stesso tempo maggiormente rilevanti e critici, per sollecitare un dibattito ampio e franco sul tema. Non presentiamo invece soluzioni e risposte. Questo è compito che, a conclusione del dibattito, spetta ai dirigenti del sindacato.
2. Da diversi anni il mondo della produzione e del lavoro sta cambiando, da noi e in tutte le economie sviluppate, come effetto delle strategie di riorganizzazione e adattamento delle imprese in un’economia più aperta, ma anche come effetto di mutamenti che riguardano la società e il mercato del lavoro.
Dal primo punto di vista, se ne possono citare almeno tre aspetti diversi ma collegati: le tendenze all’esternalizzazione di fasi produttive e alla riduzione dimensionale delle nuove aziende, più piatte e integrate orizzontalmente a rete; l’adozione di modelli d’azienda dal perimetro fluido e mutevole, che incorporano dosi variabili ma consistenti di lavoro temporaneo e fuori standard; il ricorso a strategie organizzative che richiedono l’apporto di nuove «risorse umane» qualificate, impiegate in attività coinvolgenti, spesso di tipo immateriale, nel quadro di quella che viene detta economia della conoscenza. A cui occorre aggiungere subito però tendenze di segno opposto, ma strutturalmente connesse alle precedenti, alla moltiplicazione di posti di lavoro a basso contenuto professionale e faticosi, in particolare nei servizi, e allo sviluppo di imprese che si muovono nell’economia sommersa e irregolare, in particolare nell’area della subfornitura.
Dal secondo punto di vista, i mutamenti rilevanti sono connessi all’aumento dei livelli di istruzione, all’aumento delle aspettative di vita, alla partecipazione crescente delle donne al mercato del lavoro, all’aumento dei lavoratori migranti. A questi mutamenti sono collegati in generale una diversificazione molto accentuata rispetto a un tempo dei comportamenti, delle aspettative, delle domande dei lavoratori a seconda dell’età, del genere, della cittadinanza, dei carichi familiari; e talvolta un minor apprezzamento per strategie unificanti di definizione delle condizioni d’impiego.
Ma cambia anche il contesto istituzionale entro cui si muovono l’economia e il lavoro, in seguito alla diminuzione della capacità di spesa degli stati nazionali e alla crisi delle politiche di welfare che avevano per lungo tempo svolto funzioni di sostegno alla sicurezza e al benessere del lavoro; e più di recente, in Europa, in seguito ai vincoli all’intervento pubblico nell’economia derivanti dalla politica comunitaria di promozione della libera concorrenza.
Le possibili implicazioni, sul piano della regolazione del lavoro, e quindi sul terreno della contrattazione collettiva, sono molte e contrastanti, ma convergono su un punto fondamentale: il ventaglio degli interessi e delle domande dei lavoratori è divenuto molto più ampio e diversificato di un tempo:
• perché si sono diversificati, come s’è detto, i contesti del lavoro: diminuiscono e si ridimensionano le imprese grandi e medio-grandi e si moltiplicano le piccole e piccolissime; aumenta il divario tra imprese regolari e imprese dell’economia informale e sommersa; aumentano le posizioni di lavoro temporaneo, ai confini tra autonomia e dipendenza, tra il dentro e il fuori dell’impresa; si accentua la differenza tra posizioni a elevata e posizioni a bassa professionalità;
• e perché si sono accentuate le diversità nelle attese e aspirazioni dei lavoratori in base non solo alle loro caratteristiche personali e alla loro posizione professionale, ma anche al variare delle loro esigenze nell’arco della vita lavorativa e familiare. In questa prospettiva c’è chi sostiene che obiettivo dei sindacati non dovrebbe essere più quello di stabilire degli standard uniformi, ma di concorrere a definire dei sistemi di promozione, sostegno e protezione degli individui nelle transizioni tra una condizione e un’altra sul mercato del lavoro (ad esempio: dalla formazione al lavoro; da un posto di lavoro a un altro; dal lavoro a tempo pieno a forme di lavoro limitato o temporaneo per l’insorgere di esigenze di cura; dalla preminenza dell’attività lavorativa al ritorno a ulteriori fasi di formazione, e così via).
Semplificando al massimo, il sindacato (e non solo quello italiano) si trova perciò a dover scegliere se
• cercare di ottenere, nella contrattazione collettiva, soprattutto vantaggi e benefici unificanti, validi per tutti, lasciando implicitamente all’iniziativa dei singoli in base al loro potere di mercato, o alla legge, la tutela e la difesa delle diversità,
• o al contrario cercare di allargare la propria capacità di intervento negoziale alla effettiva tutela delle differenze, nel rispetto delle aspirazioni fondamentali dei lavoratori, oltre che della necessità di tener conto delle obiettive esigenze delle imprese.
La prima alternativa è quella che, nel periodo dominato dal modello di produzione fordista, ha condotto alla fortunata e gloriosa strategia da parte dei sindacati d’industria di fare della contrattazione collettiva nazionale di categoria il centro della struttura contrattuale. Si trattava di una soluzione vincente fintanto che all’interno delle grandi imprese a produzione di massa le condizioni dei lavoratori (soprattutto maschi e soprattutto operai) erano largamente omogenee.
La seconda alternativa non si è (ancora?) tradotta in un modello ben definito di strategia negoziale. Ma è alla base delle posizioni a sostegno di un decentramento contrattuale per meglio far fronte alle diversità, anche indipendentemente dalle pressioni che in tal senso provengono dal mondo delle imprese. In questa prospettiva si deve però distinguere tra tendenze al decentramento ‘coordinato’, vale a dire che si sviluppa entro una cornice generale di riferimento che stabilisce criteri, spazi e temi per la negoziazione decentrata (che caratterizza i paesi scandinavi e dell’Europa centrale), e tendenze al decentramento ‘scoordinato’, senza vincoli (tipico dell’esperienza anglosassone).
3. Fin qui in generale.
Concentrandoci ora sul caso italiano, è indubbio che un primo riassetto di tutta la materia si è avuto con il fondamentale accordo tra governo e parti sociali del luglio 1993, raggiunto in un momento in cui era evidente la posizione di forte svantaggio dell’Italia, sul piano dell’inflazione e dei conti pubblici, rispetto a altri paesi nella partecipazione al processo di integrazione europea, e in cui quindi la lotta all’inflazione diventava un chiaro obiettivo unificante.
L’accordo è stato fondamentale perché non solo ha concorso a introdurre criteri, regole e procedure condivisi per la rappresentanza e per la composizione concordata del conflitto distributivo (politica dei redditi agganciata al tasso di inflazione programmata) favorendo maggior prevedibilità nelle relazioni parti, ma anche perché per la prima volta ha esplicitamente definito le caratteristiche della struttura contrattuale quale struttura articolata su due livelli: un livello centralizzato (il contratto collettivo di categoria) e un livello decentrato, o secondo livello (il contratto d’azienda o territoriale), ordinati gerarchicamente e caratterizzati da un principio di specializzazione delle competenze, in particolar modo per quanto riguarda la tematica retributiva.
Dal punto di vista della contrattazione collettiva, la vera novità riguardava appunto il secondo livello, cui veniva per prima volta accordata legittimazione formale, delimitandone al tempo stesso le funzioni e il campo di competenza. Non che in precedenza non si contrattasse nei luoghi di lavoro, e talvolta sul territorio. Ma ciò avveniva di fatto, in base ai rapporti di forza e alle convenienze delle parti sociali. Avveniva, riprendendo la distinzione citata, più secondo una logica scoordinata e disordinata che secondo un chiaro coordinamento delle iniziative.
L’accordo triangolare del 1993 almeno in via di principio ha aperto la porta, potremmo dire, alla logica del decentramento contrattuale coordinato. È stato un primo passo verso un riassetto della contrattazione collettiva per incominciare a rispondere alla sfida delle diversità.
Ma basta ora quel riassetto?
Tentando un bilancio a quasi quindici anni di distanza, si può dire che in linea di massima la riorganizzazione e il riequilibrio delle relazioni industriali hanno avuto in un primo tempo successo. A livello di performance generale del sistema, in base a dati di ricerca è stato osservato che l’accordo ha contribuito alla moderazione salariale degli anni novanta, facilitando il riequilibrio dei conti economici, ma permettendo d’altro canto di difendere il potere d’acquisto dei salari; che i differenziali retributivi tra settore manifatturiero e settori protetti (amministrazione pubblica e servizi di pubblica utilità) si sono ridotti; che il livello dei profitti nel corso del decennio è aumentato anche per l’aumento contenuto del costo del lavoro che è cresciuto meno della produttività; e che la moderazione salariale ha contribuito a stabilizzare l’occupazione nella prima metà degli anni novanta e a favorirne poi l’aumento.
Tuttavia, con il venir meno o l’attenuarsi dei fattori e dei condizionamenti soprattutto esterni che avevano concorso al successo della concertazione centralizzata, a partire dagli ultimi anni novanta sono riemersi i limiti di un sistema contrattuale e di relazioni sindacali non sufficientemente istituzionalizzati, ossia ancorati a meccanismi in grado di qualche modo indipendenti dalla buona disposizione delle parti a cercare di risolvere congiuntamente i problemi. Tra gli indicatori di questo insufficiente consolidamento, si possono ricordare la ripresa di accordi e scioperi separati, l’affermarsi dell’idea che sia sufficiente cercare l’accordo “con chi ci sta”, i ritardi nel rinnovare i contratti nonostante le procedure che dovrebbero scoraggiare i periodi di vacanza contrattuale; ma anche l’insufficiente consolidamento delle strutture di rappresentanza in azienda in molte aree del paese.
Ma il punto più critico, specie se si tien conto di quella che abbiamo definito la sfida di incominciare a confrontarsi con le diversità, è stata la insufficiente diffusione del secondo livello contrattuale. Benché i dati disponibili siano assolutamente carenti e manchino rilevazioni affidabili in proposito, è indubbio che la contrattazione aziendale non si sia estesa a sufficienza al di là delle aziende, specie medie e grandi, in cui aveva già una tradizione precedente. Ed è altrettanto certo che non si è affatto sviluppata, salvo sparute eccezioni, la contrattazione territoriale.
4. Che fare? Qui si apre lo spazio per un confronto anche molto diversificato delle posizioni.
a) Il punto principale riguarda la struttura della contrattazione. E la questione preliminare è se sia opportuno o meno continuare a disporre di un sistema bipolare di contrattazione. Il tema è emerso più volte in passato, quando da più parti si era chiesto di superare la supposta “anomalia” italiana del doppio livello negoziale (che molto anomala in Europa non è). Se n’era occupata anche la commissione Giugni, incaricata di verificare ormai circa dieci anni fa l’applicazione dell’accordo del 1993. Com’è noto, il sistema bipolare è stato finora confermato. La ragione più immediatamente convincente per conservare un doppio livello negoziale è che è arduo optare per un unico livello – centralizzato o, come probabilmente parrebbe più opportuno, decentrato – quando si ha di fronte un sistema produttivo che vede poche grandi aziende e un vastissimo tessuto di aziende piccole e piccolissime.
Ma ci sono altre ragioni, forse un po’ meno evidenti, che riguardano i vantaggi, oltre che i limiti, connessi al tenere aperti – con opportuna delimitazione e chiarificazione delle competenze – entrambi i livelli.
Incominciando dal livello della contrattazione centralizzata o di tipo generalizzante, in genere si sottolinea dal lato dei vantaggi la possibilità di stabilire per questa via le condizioni minime d’impiego (in termini salariali e normativi) per tutti i lavoratori, anche per quelli delle imprese in cui per varie ragioni (perché si tratta di organizzazioni piccole o perché il sindacato non vi è sufficientemente radicato) non si contratta in azienda. L’obiettivo è allo stesso tempo di uniformazione dei trattamenti (secondo il principio ‘stesso salario per stesso lavoro’) e di equità. Ma va anche osservato che a questi vantaggi dal lato del lavoro corrispondono specularmente vantaggi dal lato delle imprese. Infatti, coordinare attraverso la contrattazione collettiva prezzo e condizioni d’uso del fattore lavoro, all’interno di un settore o comparto con caratteristiche produttive omogenee, è un modo relativamente conveniente di evitare o ridurre i rischi di concorrenza sleale, basata non sulla capacità di stare sul mercato innovando e producendo beni o offrendo servizi di qualità, ma sulla possibilità di giocare al ribasso, rispetto ai concorrenti, sul costo del lavoro.
Come suggeriscono ricerche recenti, è significativo che persino nel Regno Unito, in cui da tempo si è drasticamente ridotto il ricorso al coordinamento delle condizioni d’impiego tra imprese mediante il contratto multi-employer, se ne cerchino, potremmo dire, dei sostituti funzionali (attraverso il monitoraggio ricorrente delle relazioni di lavoro, gli scambi di informazione fra le parti sociali nei policy networks in cui esse si incontrano, la retorica e la prassi del benchmarking, la creazione di authorities o di comitati misti competenti su specifici aspetti delle condizioni d’impiego). Nel caso del nostro paese, negli ultimi anni il contratto nazionale di categoria non solo si è confermato, per il suo vasto grado di copertura, come il più adatto a definire le condizioni minime di impiego; ma si è rivelato anche in grado di aumentare e aggiornare le valenze virtuose del coordinamento centralizzato (come esemplificato dalle tendenze all’armonizzazione e unificazione di diversi contratti, alla riduzione della loro frammentazione, e, sia pur timidamente, alla creazione di nuovi contratti per regolare le condizioni d’impiego di nuovi settori e nuove forme d’impiego anche fuori standard).
Molti sono d’altro lato i vantaggi della contrattazione collettiva decentrata, in quanto metodo regolativo particolarmente coerente con la variabilità dei problemi che le imprese e le economie locali devono affrontare in un contesto molto meno prevedibile di un tempo, e in cui è aumentato d’importanza l’obiettivo della competitività. Nel nuovo mondo di molti lavori e molte posizioni lavorative che ne deriva, negoziare a livello decentrato permette non solo di far partecipare i lavoratori agli incrementi di produttività, ma soprattutto di definire in modi sperimentali e adattivi regole condivise più vicino a dove sorgono i problemi, e quindi di tener meglio in conto di particolarità e specificità, con possibili effetti virtuosi sia per la competitività delle imprese, sia per la tutela del lavoro.
Vi sono peraltro problemi e limiti di cui occorre aver consapevolezza. Dal lato del contratto nazionale uno dei problemi principali è come, con quali criteri, stabilire il livello delle condizioni minime d’impiego (in termini salariali e normativi) valido per tutti: poiché esso sarà necessariamente troppo contenuto per alcune imprese (quelle più dinamiche), ma potrà risultare eccessivo per altre. Nel primo caso può appunto funzionare da correttivo il ricorso alla contrattazione di secondo livello con funzioni integrative e migliorative. Ma e nell’altro? I dati sulla situazione economica del paese indicano una persistente, anzi crescente diversificazione territoriale e uno sviluppo abnorme dell’economia sommersa e del lavoro nero. Le cause sono molteplici, ma quanto non conta anche l’imporre condizioni omogenee a contesti che sono tra loro differenziati?
Dal lato della contrattazione di secondo livello il primo problema è, come si è già detto, la sua insoddisfacente diffusione, così che il modello contrattuale complessivo risulta monco. Come porvi rimedio?
Se continua dunque a apparire opportuno disporre di un sistema negoziale a due livelli, che permette sia di coordinare e armonizzare le condizioni minime, sia di definire in modo congiunto aspetti rilevanti delle effettive condizioni d’impiego del lavoro nei casi concreti, ci sono tuttavia almeno due aspetti critici da rivedere. Uno è quello dell’equilibrio tra i livelli. L’altro è l’evidente necessità di ripensare al secondo livello, per sfruttarne meglio le potenzialità positive per entrambe le parti.
Dal primo punto di vista, la direzione non dovrebbe essere dunque quella di imboccare in modo più deciso la logica del decentramento coordinato, od organizzato? Che è quella che si è rivelata particolarmente proficua nel contesto delle economie coordinate di mercato tipiche della gran parte dei paesi europei. Ciò significherebbe salvaguardare il ruolo d’impostazione e generalizzante dei contratti nazionali, ma alleggerendone la funzione normativa, e ampliando di conseguenza le competenze di merito della contrattazione decentrata.
Ma questo introduce subito l’altro aspetto: quello che occorre ovviare al fatto che la contrattazione di secondo livello è rimasta ancor poco diffusa. Immaginare delle soluzioni a questo punto critico non significa affatto pensare semplicemente peraltro di estendere il più possibile il modello della contrattazione aziendale delle imprese medio-grandi. E non solo perché questa estensione si rivelerebbe irrealistica nel caso delle imprese più piccole. Ma anche perché di questo livello decentrato dovrebbero probabilmente essere valorizzare molto più esplicitamente di quanto non avvenga oggi le capacità di definire le soluzioni più appropriate alle caratteristiche del contesto locale in tema di orario, organizzazione del lavoro, formazione, servizi e welfare aziendale e locale, ecc.. Non è forse attraverso la rivalutazione delle potenzialità di questo livello come quello adatto alla gestione concordata degli aspetti critici e delle esigenze di flessibilità delle imprese e di tutela del lavoro che si possono individuare le soluzioni (attraverso la contrattazione territoriale, d’area, di distretto, di sito…) adatte anche alle imprese minori senza gravarle di oneri impossibili?
b) Queste osservazioni hanno già introdotto la seconda tematica rilevante per il dibattito: quello dei contenuti della contrattazione su cui facciamo solo un cenno.
Retribuzioni e condizioni d’impiego in azienda sono sempre state al centro dell’iniziativa sindacale. Ma è sufficiente questo in un periodo in cui le domande dei lavoratori, oltre che le esigenze delle imprese, sono divenute, come s’è detto, molto più diversificate di un tempo?
Oltre al rafforzamento dei meccanismi di salvaguardia del potere d’acquisto delle retribuzioni e a un’effettiva negoziazione del salario variabile collegato agli andamenti della produttività delle imprese, e oltre ai temi che abbiamo elencato poco sopra, che riguardano da diversi punti di vista la tutela delle condizioni di impiego entro contesti aziendali più fluidi e mutevoli che in passato, non è forse divenuto urgente affrontare la problematica della tutela dei lavoratori nei loro spostamenti, nelle loro transizioni sul mercato del lavoro?
I contenuti della contrattazione potrebbero dunque essere centrati su quanto avviene dentro e su quanto avviene fuori dell’impresa. Almeno in parte, ciò equivale ad avventurarsi su terreni nuovi, per affrontare i quali nessuno ha già ricette pronte, con conseguenze rilevanti sullo stile negoziale che sarebbe bene adottare: uno stile che dovrebbe essere orientato alla sperimentazione delle soluzioni e alla predisposizione fin dall’inizio di momenti sistematici di verifica, in cui fare il punto ed eventualmente riaggiustare il tiro.
Ciò potrebbe probabilmente richiedere un potenziamento dell’attività sul territorio e certamente implicherebbe un’intensificazione dei rapporti con i lavoratori per cui si vuole contrattare.
c) Queste ultime riflessioni ci conducono a riflettere su chi si vuole che siano i destinatari della contrattazione collettiva. A favore di chi dunque contrattare? Delle donne oltre che degli uomini? Dei lavoratori delle nuove generazioni oltre che di quelli nelle fasce centrali d’età o in età matura? Dei lavoratori in cerca di lavoro o con contratti fuori standard oltre che di quelli assunti stabilmente a tempo indeterminato? Dei lavoratori immigrati oltre che degli italiani? Dei lavoratori dell’economia informale oltre che di quelli delle imprese regolari? O anche, come si dice, degli outsiders oltre che degli insiders?
È forse facile rispondere che si vorrebbe contrattare a favore di tutti. Ma se l’obiettivo è dunque quello di una contrattazione il più possibile inclusiva, occorre riflettere lucidamente sulle implicazioni che questo potrebbe avere poi nella selezione e definizione degli obiettivi rivendicativi, dal momento che non è evidentemente possibile semplicemente estendere a tutti i risultati dell’azione contrattuale passata, ma neppure è possibile semplicemente aggiungere indefinitamente tutele e vantaggi nuovi a vantaggio di gruppi e posizioni lavorative prima ai margini senza rivedere almeno in parte il quadro d’assieme.
d) Ancora un cenno infine al problema degli attori della contrattazione. Qui sono chiamate in causa le strutture di rappresentanza dei lavoratori nelle imprese (le RSU), di cui occorre stabilizzare la presenza e rafforzare la preparazione con programmi adeguati di formazione. Ma sono chiamati ovviamente in causa i dirigenti sindacali esterni ai luoghi di lavoro, nelle categorie e sempre più anche, presumibilmente, nelle strutture territoriali. La capacità del sindacato a far posto sia in un caso sia nell’altro anche a rappresentanti delle diverse nuove posizioni lavorative potrebbe rivelarsi decisiva per permettere un rinnovamento.


























