di Gian Primo Cella – Ordinario di Sociologia Economia all’Università di Milano
Il tema sembra diventato quasi una ossessione per le relazioni industriali italiane. Protagonisti e osservatori si spendono in proposte e controproposte, giocando, non sempre con coerenza, ruoli di innovazione e di conservazione. Ma le realizzazioni stentano ad arrivare, ed è comprensibile visto che il tema è proprio uno di quelli che meno si prestano agli interventi di tipo volontarista. Forse alcune premesse sono necessarie per affrontarlo in modo fondato, mettendolo un poco al riparo dalle polemiche troppo spesso di tipo strumentale.
Va subito ricordato che la struttura della contrattazione non è quasi mai manipolabile a piacimento dalle parti sociali. Essa in qualche modo corrisponde alle strutture di mercato e della produzione di beni e servizi ed agli andamenti della competizione all’interno di queste strutture (leggi la costruzione economica e sociale dei mercati). Il volontarismo non è impossibile, ma è fortemente condizionato. Ferme restando le altre condizioni, la struttura contrattuale va normalmente considerata come una scatola con contorni rigidi all’esterno (la copertura complessiva della contrattazione) e con livelli mobili al suo interno. Ogni spostamento di un livello (ad esempio verso l’alto o verso il basso) va a scapito o a vantaggio della portata e dei contenuti di altri livelli.
Certo non è impossibile la estensione della copertura contrattuale o, se si vuole, l’allargamento dei contorni della scatola, ma questo accade in momenti molto particolari di cambiamento del sistema di relazioni industriali. Momenti quasi sempre di grande turbolenza e conflittualità, con mutamenti significativi nei soggetti della rappresentanza del lavoro ed anche delle imprese, che non si sono presentati molte volte nella storia delle relazioni industriali. Si veda il caso italiano all’inizio degli anni sessanta e, soprattutto, degli anni settanta, con la diffusione del modello della contrattazione di categoria e della connessa articolazione. E, se si vuole ritornare più addietro, la esperienza americana negli anni del New Deal, con l’affermazione dei sindacati industriali e del conseguente ridimensionamento della contrattazione di mestiere.
Da questa prima premessa discende che per il cambiamento della struttura contrattuale è necessario (fatte salve le schermaglie più o meno rituali) il consenso delle due parti negoziali, secondo il ben noto principio it takes two to tango, un consenso talvolta favorito e promosso dal ruolo delle istituzioni pubbliche. È difficile, ad esempio, che il movimento sindacale possa imporre il cambiamento alla controparte. E’ successo poche volte nel XX secolo, e sono eventi storici che ricordiamo bene proprio per la loro eccezionalità. E se risaliamo al caso italiano dell’inizio degli anni sessanta con l’introduzione del modello della contrattazione articolata, non va dimenticato lo straordinario ruolo innovatore giocato dalle aziende a partecipazione statale attraverso l’Intersind.
La seconda premessa riguarda le tendenze a livello europeo, esse ci dicono qualcosa che dobbiamo tenere bene in considerazione onde evitare conseguenze inintenzionali di eventuali cambiamenti nella struttura contrattuale. Nel panorama più recente delle esperienze europee di contrattazione collettiva i processi di decentralizzazione della struttura contrattuale sono stati (più o meno) istituzionalmente “controllati” dal centro e caratterizzati da contenuti salariali e normativi “in deroga” (in peius, come direbbero i giuslavoristi), o rivolti alla introduzione di misure aggiuntive di flessibilità nell’uso del lavoro o nella gestione degli orari. L’esperienza tedesca delle “clausole di apertura” è, per entrambi questi aspetti, paradigmatica. Nulla impedisce ai sindacati di immaginare un decentramento della struttura contrattuale per perseguire miglioramenti delle condizioni salariali e normative di interi comparti produttivi territoriali e per ridurre uno slittamento salariale non sindacalmente controllato, ma il cammino necessario non sarà percorso senza forti contrasti.
Tali premesse possono essere utili per apprezzare adeguatamente il dibattito italiano su questo tema, e per intervenire in esso, se non con scoperti intenti propositivi, almeno con apprezzabili finalità conoscitive, consapevoli dei caratteri non facilmente rinunciabili della logica e della pratica delle relazioni industriali. Dalle premesse derivano le corrispondenti questioni. La prima questione riguarda il rapporto fra struttura contrattuale e strutture produttive. Se si hanno obiettivi di mutamento della prima, essi devono in qualche modo corrispondere a finalità di mutamento delle seconde. Se si accetta, ad esempio, l’esigenza di favorire in modo esplicito il modello dello sviluppo locale, o diffuso, è indubitabile che potrebbero essere opportuni dei significativi esperimenti di decentramento degli assetti contrattuali, con più o meno forti caratterizzazioni locali. Ma questo carattere, fortemente segnato da prospettive “industrialiste-manifatturiere”, non esaurisce tutti i problemi connessi alle strutture contrattuali. Nei settori dei servizi, come nei trasporti, la modernizzazione ed il rafforzamento delle strutture produttive dovrebbero essere favoriti attraverso la realizzazione di grandi contratti nazionali di categoria (ovvero multi-impresa), fatte salve alcune articolazioni territoriali legate alle specificità del settore. E questo non è un tema di importanza inferiore al precedente.
Per quanto attiene alla estensione della copertura della contrattazione decentrata (nel nostro sistema è il caso soprattutto di quella aziendale, che non copre più del 30/40 % del totale degli adddetti), sono comprensibili le ambizioni delle confederazioni, della Cisl soprattutto, riaffermate di recente nel documento “Linee guida per la riforma degli assetti contrattuali” (v. “Conquiste del lavoro”, 15 settembre 2004). Ma è difficile che tali ambizioni incontrino il consenso delle associazioni imprenditoriali se esse comportano la introduzione di un nuovo livello della contrattazione (appunto quello territoriale), per quei settori che attualmente non lo prevedono. Non dimentichiamo che di fronte ad una tale ventilata possibilità la Confindustria stava per rifiutarsi di firmare l’accordo del luglio 1993, e ci vollero l’abilità di convincimento, e il prestigio, di Ciampi e Giugni, per farla retrocedere dal proposito. In generale, si può ancora oggi sostenere che se le associazioni imprenditoriali hanno una preferenza (non so se una ambizione) è quella per un livello unico della contrattazione. L’accettazione di un livello territoriale potrebbe essere ipotizzabile solo nel quadro di un superamento del contratto nazionale. Ma è difficile che le confederazioni, anche quelle più innovatrici, possano, al di là delle dichiarazioni di intenti, essere disponibili a un mutamento di tale portata.
Il consenso delle parti sulla introduzione di un livello contrattuale territoriale, che dovrebbe compensare l’assenza di un livello aziendale per i comparti delle piccole imprese, è dunque quanto mai improbabile. Difficile, insomma, che si arrivi a qualcosa che si avvicina alla c.d. esigibilità della contrattazione territoriale. Un termine, quello di “esigibilità”, che ritroviamo con grande enfasi nel documento della Cisl, ma che andrebbe usato con molta parsimonia nelle relazioni industriali.
L’esperienza, di grande interesse, che si è conclusa nel settore dell’artigianato con un accordo interconfederale, dopo non poche resistenze della Cgil, merita di essere approfondita e messa alla prova, ma per caratteri “strutturali” non è avvicinabile a quella presente nei settori industriali. Di fatto, con questo accordo si è affermato (al di là delle dichiarazioni di forma) un livello regionale sostanzialmente unico, sia pure entro un significativo controllo di livello interconfederale. Inoltre le imprese artigiane non sono coinvolte in processi di contrattazione aziendale, potendo evitare così il rischio di vedersi sovrapporre un livello territoriale a quello di impresa.
E allora? La struttura della contrattazione appare dunque immodificabile, a patto di traumi nella regolazione salariale e normativa che potrebbero essere forieri di non pochi effetti perversi? Forse no, se si seguono alcune tendenze europee e si sanno cogliere i loro significati. Debbo ammettere che, su questi temi, ritengo ancora in buona parte condivisibili le considerazioni conclusive della commissione Giugni (riportata in appendice al libro-intervista dello stesso Giugni sui cammini della concertazione, Il Mulino, 2003), nominata dal Governo Prodi alla fine del 1997, in vista di una possibile revisione dell’accordo del 1993. Considerazioni sulla cui validità, dopo parecchio oblio, si è soffermato il già citato documento della Cisl. Le indicazioni della commissione, alla quale chi scrive queste righe ha partecipato, ipotizzavano la sperimentazione di “clausole di uscita che consentano entro certi limiti ed a precise condizioni definite nel Ccnl di derogare a livello aziendale e/o territoriale alla disciplina negoziata a livello nazionale. Tali clausole comporterebbero comunque sempre la consensualità delle deroghe, verificata e validata dalle stesse organizzazioni firmatarie dei contratti collettivi derogati […]”. Un processo di revisione dell’impianto previsto dall’accordo del 1993, magari con ritocchi del timing dei rinnovi contrattuali, potrebbe essere la sede più opportuna per l’avvio di questa fase sperimentale. Ma tale revisione dovrebbe essere molto cauta: nel complesso, il grande compito di istituzionalizzazione delle relazioni industriali italiane intrapreso dall’accordo del 1993 è ancora più che mai necessario. E’ stato semmai carente, o inadempiente, il ruolo svolto dalla parte pubblica, ad esempio nella definizione di tassi realistici di inflazione programmata. Ma questo, come è noto, è un altro problema.