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Home - Approfondimenti - Analisi - Questione di comportamenti, non di norme

Questione di comportamenti, non di norme

8 Ottobre 2003
in Analisi

Raffaele Delvecchio – sindacalista d’impresa

Nelle parole di Mascini sembra riecheggiare il rimpianto del ’93, così come in quelle di Mortillaro spesso riecheggiava il rimpianto per gli anni in cui Costa e Di Vittorio si accordavano senza tanti fronzoli: con Le Monde, che nelle settimane scorse ha parlato di “desir d’Italie”, potremmo dire desiderio di concertazione. Del ’93 Mascini evoca  correttamente l’aspetto strutturale (il modello di gestione) e non quello congiunturale (la gestione della crisi scoppiata nel ’92); al riguardo, egli mette in evidenza come in una situazione ideale il problema non è quello di condividere il potere di decidere, bensì quello di consentire ai portatori di interessi, ai corpi intermedi, di offrire un contributo palese (sottolineo l’aggettivo) alla definizione di un progetto di azione.

Facciamo un passo indietro. Il protocollo del ’93 è la messa in bella di un “acquis” sindacale sulla politica dei redditi e sugli assetti contrattuali, che tesaurizza un dibattito teorico e sindacale sulla contrattazione aziendale e sulla scala mobile, durato anni e costato conflitti duri e aspri. E’ stato giusto che la “contingenza delle umane cose” abbia offerto a Giugni, come rappresentante dell’Esecutivo, la possibilità di proporre, discutere e fissare una tale soluzione: a lui, che decenni prima aveva spiegato il valore dell’ordinamento intersindacale e della ricerca delle regole non scritte (le “prassi”) all’ interno del sistema di relazioni fra le parti sociali.



Gli assetti contrattuali definiti nel ’93 resistono ai tentativi di riforma, perché la cultura che è loro sottostante è più forte delle pecche in loro insite; perché sono forti i nessi civili indistinti (G. Alvi) espressi nei comportamenti delle parti sociali e colti, in quel protocollo, nelle forme che il setaccio delle relazioni industriali aveva selezionato nei decenni precedenti. Tant’è che di fronte a certe virulenze del conflitto attuale esprimono il loro disagio anche uomini certo non sospettabili di accondiscendenza a confusioni di ruolo.


 


Quando parlano di vulnus a questo modello, molti di noi pensano al Patto per l’Italia; Mascini ci ricorda che non è stato solo quell’evento a rimettere in discussione gli equilibri raggiunti. Mi permetto di citarne alcuni.


Quindici giorni dopo l’accordo sulle Rappresentanze sindacali unitarie alcuni sindacalisti raccolsero le firme per proporre un referendum modificativo dell’art. 19 dello Statuto dei diritti dei lavoratori, in contrasto con l’accordo interconfederale raggiunto con la Confindustria a dicembre del ’93: la votazione avvenuta nel ’95 costituirà un boomeramg per i proponenti e indurrà Confindustria a essere, d’allora in poi, molto guardinga sulle possibili riforme legislative, che nella XIII legislatura, e anche dopo, sono state oggetto di iniziative parlamentari


L’accordo separato sulle pensioni non provocò drammi? Non mi pare; come non manca di ricordarci in ogni occasione Innocenzo Cipolletta, Confindustria che, piaccia o no, finanzia la maggior parte degli oneri del sistema previdenziale, non si è mai sentita partecipe del progetto che portò alla riforma Dini del ’95. Oggi, di fronte a chi propugna l’urgenza di un nuovo intervento sulle pensioni, il sindacato risponde che se ne deve parlare nel 2005, ma è evidente che gli imprenditori non si sentono condizionati e impegnati da una scadenza prevista dalla riforma Dini.


Nel novembre del ’97 le parti sociali sottoscrissero un avviso comune per la riforma della vecchia ma ben fatta normativa sull’orario di lavoro: nella scorsa primavera quell’avviso è diventato legge dello Stato. Il merito maggiore dell’accordo non fu nella redazione tecnica delle modifiche delle norme vigenti, bensì nella scelta politica di Callieri e dei segretari generali  dei tre sindacati di non tener conto dell’intesa raggiunta il mese precedente da Prodi e Bertinotti, con cui il nostro Governo seguiva l’iniziativa francese sulla riduzione a 35 ore dell’orario di lavoro, non rispettando la competenza dell’autonomia collettiva. Le 35 ore non sono diventate legge.


 


Gli episodi ora citati, secondo me, mettono in evidenza un problema non di regole bensì di comportamenti e di deviazioni da buone pratiche; forse è questo il motivo per cui emerge talvolta il bisogno di istituzionalizzare il metodo della concertazione. Credo anch’io che la sua costituzionalizzazione sia da ritenere impropria, perché eccessiva rispetto all’esigenza altrettanto insopprimibile di libertà di azione. Nondimeno, è probabile che sia necessario fissare meglio i processi decisionali, attraverso i quali, posto un obiettivo, le parti  individuano il modo per raggiungerlo.


 


Sui comportamenti il lavoro è più lungo e complesso, perché è necessario innanzitutto capire gli elementi di fondo che è opportuno toccare per conseguire gli obiettivi voluti. Per questo motivo, per esempio, sono restìo a liberare la contrattazione aziendale dal vincolo del nesso con produttività e redditività, istituito dal protocollo del ’93 (pesa in me il retaggio degli eccessi degli anni ’70), mentre credo, con Becattini, che il sistema dei distretti industriali possa misurarsi alla luce del sole con i temi della concertazione decentrata, senza invadere il terreno della competenza contrattuale. Non bisogna dimenticare che l’attitudine disordinante dei soggetti contrattuali a negoziare a tutto campo ai diversi livelli contrattuali e praticata per trent’anni è stata bloccata proprio dal legame tra istituti caratterizzati dall’alea dei risultati e il beneficio dello sgravio contributivo: ecco un circuito virtuoso tra norma e comportamento.


 


Non è un buon momento per le nostre relazioni industriali, come dice Mascini, anche perché il sistema sembra reagire meglio dinnanzi all’emergenza e peggio dinnanzi al consolidamento e alla maturazione. Nulla di nuovo sotto il sole; non mi preoccuperei, comunque, né tenderei a giudicare sotto una spinta emotiva: nel dibattito tra concertazione e dialogo sociale, credo che tutti, ma proprio tutti, gli attori siano consapevoli del limite e della misura richiesti nei due modelli dalla necessità di trovare soluzione ai problemi concreti.


 



 

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