Ho seguito con interesse il dibattito sui referendum tra Maurizio Landini e Matteo Renzi moderato sulla 7 da Massimo Gramellini. E mi è parso la fotografia istantanea (ma vera ormai da molti anni) di una sinistra che si perde in divisioni puntigliose piuttosto che cercare una “piattaforma comune” per affrontare le tante crisi in atto e i rischi che minacciano la società italiana. Di fronte a una destra di governo che si occupa di apparenza (nazionale e internazionale) piuttosto che di sostanza.
Nel dibattito televisivo il paradosso è che entrambi i protagonisti (Landini e Renzi) dicono cose vere e sensate, seppure in contrasto fra loro. Landini, che il lavoro da molti decenni è considerato una merce “usa e getta” (le parole fra virgolette sono di Papa Francesco) e che anche i governi di sinistra hanno sbagliato pensando che la flessibilità e la libertà di impresa fossero le leve per un nuovo sviluppo diffuso e omogeneo, come predicavano Reagan, la Thatcher e anche Blair. Renzi sostenendo che invece che prendersela con le riforme del passato (compreso il Jobs Act), inseguendo l’obiettivo di una resa dei conti a sinistra, sarebbe più opportuno definire le politiche future (a partire dalla crescita delle retribuzioni) su cui mobilitare il Paese per evitare l’impoverimento sociale e l’emigrazione all’estero dei giovani italiani. Contro le non-politiche del governo di destra.
Su cosa dovrebbe poggiare questa nuova politica economica e sociale? Qui un secondo paradosso. Pochi giorni fa il Governatore della Banca d’Italia Panetta, tra le tante osservazioni giuste che ha fatto sulle dinamiche socio-economiche e monetarie nazionali e internazionali in corso, ha detto esplicitamente che è necessario un “patto” per far crescere in Italia la produttività, l’innovazione e le retribuzioni ferme da decenni. Il Presidente della Confindustria Emanuele Orsini ha valutato “molto positivamente” la relazione di Panetta.
A questo punto, come si dice, “sorge spontanea la domanda”: chi lo deve avviare e realizzare questo “patto”? Le forze sociali, i corpi intermedi: sindacati e imprese? Oppure la politica?
Difficile immaginare che possa la politica ricomporre il puzzle. La politica in genere si identifica per differenze di opinioni (o di conoscenze), non per convergenze. La terza via che si sta percorrendo da un paio d’anni, per cui le forze sociali si dividono tra “filogovernative” e “antagoniste” a priori ha dimostrato di non essere in grado di affrontare i problemi veri del Paese e di non andare oltre la polemica quotidiana e la propaganda.
I referendum proposti dalla Cgil, se riusciranno a mobilitare i milioni di cittadini che non votano più, avranno il merito di porre in evidenza la centralità del tema del lavoro (e della cittadinanza) per tutti, a partire dalle giovani generazioni. Speriamo che il 10 giugno, qualsiasi sia il risultato referendario, i paradossi prima indicati si sciolgano e i soggetti socialmente attivi inizino un confronto serio e costruttivo che avvii la realizzazione di quel “patto” indispensabile a ridurre le diseguaglianze sociali, territoriali ed economiche del Paese.
Una sola raccomandazione: il futuro economico non sarà più trascinato dalla manifattura e neppure solo dall’industria. È sulla qualità, sull’efficienza, sul lavoro dei servizi (pubblici e privati) che bisogna agire con urgenza, per evitare che ai nuovi crescenti bisogni sociali rispondano la speculazione del libero mercato e il diffondersi di un lavoro dequalificato e instabile. La riqualificazione efficiente dei servizi (pubblici e privati) può essere un volano della crescita degli investimenti anche in altri settori.
Gaetano Sateriale