E’ un mantra che ci accompagna praticamente da sempre. O, almeno dagli anni ’80, da quando è iniziata la lunga marcia all’indietro che ha segnato la reazione allo Statuto dei lavoratori. E, dunque, smantellare le garanzie assicurate dai contratti scongela il dualismo fra lavoratori protetti e no, aumenta la mobilità, allarga le prospettive di impiego, offre ai precari più possibilità di centrare il posto fisso. Per riassumere in una formula: più puoi licenziare, più assumi e, alla fine, ci guadagnano tutti. Più o meno apertamente, nel fallimento dei referendum sul lavoro promossi dalla Cgil c’è – anche – questa diffusa sensazione che il problema chiave non siano le tutele, ma le opportunità. E’ il filo che collega la riforma Fornero del 2012 al Jobs Act di Renzi, tre anni più tardi.
Bene, non è vero. O, almeno, non è stato vero. Gli unici a guadagnare davvero da questa smobilitazione delle garanzie dei contratti sono stati gli imprenditori, che, dopo aver licenziato, hanno pagato salari più bassi ai lavoratori che sono subentrati. Lo dicono i dati, raccolti da Marco Francesconi e Daniela Sonedda in una ricerca, pubblicata su lavoce.info. La chiave delle varie riforme per la liberalizzazione del mercato del lavoro è, infatti, nella disciplina dei licenziamenti. E il punto di partenza è la riforma Fornero che, nel 2012, rese possibile, nel caso di licenziamento illegittimo, un risarcimento economico, al posto dell’obbligo di reintegro sul posto di lavoro.
Ma il risarcimento non copre la perdita di salario conseguente alla fine di quel rapporto di lavoro. La verità è che chi perde il posto (per qualsiasi motivo: licenziamenti individuale o collettivo, fine contratto a termine, dimissioni) fatica a recuperare la busta paga precedente e, anzi, di norma, dicono Francesconi e Sonedda, non ci riesce. La perdita del posto ha, insomma, un costo non solo emotivo, ma quantificabile in uno stipendio più basso, senza che aumentino le possibilità di reimpiego, nonostante la narrazione dominante.
In realtà, questo avviene molto spesso: il primo posto di lavoro dopo il licenziamento paga di meno. La riforma Fornero e il licenziamento più facile hanno però fortemente aumentato il divario con il lavoro precedente. A 12 mesi dalla perdita dell’impiego, prima della riforma Fornero, il lavoratore, nel nuovo posto di lavoro guadagnava, alla prima busta paga, in media 78 euro in meno. Dopo la riforma, il lavoratore licenziato perde circa il triplo. La differenza fra la nuova busta paga e quella precedente è salita a 222 euro al mese. E il mercato del lavoro più mobile e flessibile? Prima della riforma, il 48 per cento dei licenziati, dodici mesi dopo, aveva trovato un altro posto. Dopo la riforma, questa percentuale è scesa al 41 per cento. Francesconi e Sonedda fanno notare che, dai dati, non risulta neanche alcun movimento statistico di aumento dei contratti a tempo indeterminato.
C’è un recupero graduale, mano a mano che il lavoratore avanza nella nuova carriera, ma non arriva mai ad essere completo. A 33 mesi dalla perdita del posto, il lavoratore rioccupato dopo la riforma Fornero continuava a guadagnare meno di prima, anche se la distanza si è ridotta: la busta paga ora è più magra non di 222 euro, ma di 137. Anche qui, però, prima della riforma le cose andavano meglio e la perdita era limitata a 99 euro. Ma, almeno, le possibilità di trovare un altro posto sono aumentate con le nuove norme? No: le probabilità di rioccupazione, a tre anni dal licenziamento, sono le stesse di prima della riforma.
Le conclusioni della ricerca sono nette: rendere più facili i licenziamenti non riduce le dualità del mercato del lavoro e l’effetto principale è livellare verso il basso la situazione dei lavoratori precedentemente protetti. In qualche modo, in termini economici, ancor prima che sociali, è una conclusione prevedibile e scontata. Quando l’economia affonda, come avveniva nel 2012 della riforma Fornero come, in qualche misura, nel 2015 del Jobs Act di Renzi, rendere più facili i licenziamenti favorisce non la mobilità, ma l’esclusione dei lavoratori. Dai dati non pare, inoltre, che avere alleggerito i costi delle aziende nel momento di crisi abbia favorito un nuovo fervore di assunzioni alla ripresa della congiuntura, dopo il 2018. Sotto questo profilo, riforma Fornero e Jobs Act sono stati un fallimento, che non teneva conto della realtà contemporanea dell’economia. Tuttavia, sarebbe interessante sapere se le dinamiche attuali, in una situazione, oggi, di occupazione crescente, riproducano le stesse tendenze.
Maurizio Ricci