“L’umanità ha fallito”. Nella sua tragicità, il richiamo alle parole di Antonio Guterres da parte della segretaria generale della Fisac Cgil, Susy Esposito, suona puntuale all’interno dell’iniziativa “Fondiamo un futuro di pace”, che si è svolta a Roma mercoledì 5 novembre presso l’Auditorium di via Rieti. La giornata, organizzata dalla federazione del credito della Cgil, è stata occasione per una riflessione allargata sugli scopi del settore in uno scenario frastagliato come quello attuale. Ma soprattutto, utile per ricalibrare il percorso: costruire una finanza che torni a servire la società, i diritti, la sostenibilità e la pace. Sostenibilità, appunto, sia essa economica, sociale o ambientale, è stata la parola chiave della tavola rotonda pomeridiana che ha messo a dialogo la politica delle opposizioni con il sindacato e pietra angolare della discussione, ovviamente, è stata la manovra di bilancio attualmente in discussione in Parlamento. Una manovra dal 18 miliardi che, sostanzialmente, non piace a nessuno: timida, leggera, modesta, prudente, che sacrifica sanità, salari e politica industriale guardando a interessi esterni piuttosto che alle urgenze indifferibili del Paese – come osserva Tino Magni di AVS, preconizzando il raddoppio del prossimo anno in funzione delle elezioni.
Gli interessi esterni sono quelli di un’Europa che sembra abbandonare “i valori di contrasto alla guerra per cui è nata e si è sviluppata”, avverte Esposito, cancellando il suo modello sociale di sviluppo e torcendosi su un’economia di guerra nell’orizzonte del militarismo. Il tutto per compiacere il “paparino” Donald Trump che a quell’animale morente che è l’Europa (parafrasando Alessandro Baricco) intima di aumentare la spesa in armamenti fino al 5% del PIL in 10 anni (che per l’Italia vuol dire 120 miliardi di euro) e di acquistare armi dagli USA senza che questi ci rimettano un penny – anzi. La manovra 2026 va letta in ragione di questo impegno: obiettivo dichiarato del governo italiano è tenere “i conti in ordine” e uscire dalla procedura di infrazione – scendendo sotto il 3% di deficit – con un anno di anticipo rispetto a quanto programmato anche per rendere giustizia alle recenti promozioni delle agenzie di rating (possibili solo grazie ai benefici del PNRR in scadenza, all’epoca tanto vituperato dalle attuali forze di maggioranza). Ma la fretta si giustifica principalmente perché solo così è possibile accedere al programma SAFE e ottemperare l’impegno preso in sede NATO – il “non detto della manovra”, come osserva Antonio Misiani del PD. Un programma, si badi, sempre a debito, e che dunque scaricherà i suoi oneri interamente sulle generazioni a venire.
Si tratta di un’economia della sottomissione agli Stati Uniti di Donald Trump, sottolinea Gianmauro Dall’Olio del M5s, ai quali come Italia versiamo all’incirca il 53% del nostro budget per le spese militari; il tutto mentre i salari si indeboliscono e il Sistema Sanitario cade a pezzi. Un mini taglio dell’Irpef, attacca ancora Misiani, senza alcuna restituzione del fiscal drag o un occhio all’equo compenso o un passo in avanti (o indietro) sul salario minimo fanno capire che la corsa al riarmo è preferibile a qualsiasi altra politica in un paese incastrato tra crisi sincroniche. Per giunta, spiega il segretario confederale della Cgil Christian Ferrari, scomputando dal patto di stabilità “non le spese per dare risposte alle istanze che interessano le persone, a partire dalla sanità e dalle politiche industriali, ma si scontano le spese militari”. Questo “è un primo dato che richiede una battaglia politica culturale sociale la dobbiamo portare avanti in tutti in tutte le sedi”.
“Economia della paura” la definisce Anna Maria Romano, presidente Unifinance, ed è quella di un capitalismo predatorio in difficoltà che si muove in maniera indiscriminata. E che si malcela sotto etichette di volta in volta meglio masticabili dall’opinione pubblica: Rearm Europe che diventa Readiness 2030. Romano avverte del rischio sempre più concreto di una bolla finanziaria militare, che in potenza sarà “molto più pericolosa di quella che abbiamo già vissuto nel 2007”, facilitata da minore trasparenza e meno controlli sui flussi finanziari, nonché dal dual use delle politiche militari, con il finanziamento principale nel bilancio europeo e i succedanei finanziamenti provenienti da ogni paese.
A fronte delle tante opacità, obiettivo collegiale del sindacato è rendere le persone sempre più consapevoli e dare loro strumenti di comprensione e interpretazione delle dinamiche.
E la politica? “La colpa è anche nostra”, è l’autodafé di Magni. Il centrosinistra – “o campo largo che dir si voglia” – ha l’obbligo di sapere cosa vuole la società, di intercettarne i bisogni. Una società che “negli ultimi mesi ha dato prova di essere un passo avanti” alla politica e al sindacato attraverso le partecipatissime manifestazioni per la pace. “Bisogna essere in grado di dare un messaggio di opposizione e non di divisione”, perché va bene presentare emendamenti, ma bisogna anche offrire un modo diverso per affrontare le difficoltà e uscire dall’indirizzo degli armamenti. Il rischio, altrimenti, è venirne risucchiati nonostante la volontà.
Per Ferrari, “inevitabilmente la finanza segue le tendenze e la direzione che viene impressa all’economia reale dalle scelte di politica economica ed è cruciale spingere le scelte di investimento verso obiettivi che siano socialmente, ambientalmente e più democraticamente compatibili a partire evidentemente dall’economia di pace; dobbiamo rafforzare ed estendere l’impegno di una visione che punta a cambiare un modello di sviluppo complessivo. È questo il tema che sta a monte. Se il modello di sviluppo va verso un’economia di guerra è del tutto evidente che anche la finanza in un modo o nell’altro seguirà. Il punto, dunque è quale modello di sviluppo vogliamo costruire per il nostro Paese e per l’Europa”.
Riflessioni, queste, giusto all’indomani del messaggio del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in occasione della Giornata dell’unità nazionale celebrata ad Ancona ha richiamato l’urgenza della “creazione di una comune forza di difesa europea che, in stretta cooperazione con l’Alleanza Atlantica, sia strumento di sicurezza per l’Italia e per l’Europa”. E farlo prima che sia troppo tardi. Ma chi dovrà pagare il conto, ancora una volta, è oggetto di tensioni.
Elettra Raffaela Melucci



























