di Aris Accornero – Professore emerito di Sociologia Industriale all’Università di Roma La Sapienza
La fulminea vittoria di Luca di Montezemolo nella corsa alla Confindustria, conseguita quasi senza colpo ferire e con la rinuncia dell’unico competitore, la dice lunga sul sonoro scacco subito da Antonio D’Amato. La dice lunga, soprattutto, sul bisogno degli imprenditori di dimenticare la gestione del quadriennio trascorso. Basta rammentare che la vittoria di D’Amato, fra le più contrastate di tutta la storia confindustriale, sembrava registrare le due novità che la Confindustria doveva ormai riconoscere: l’affermarsi socio-antropologico del piccolo-medio imprenditore italiano e l’emergere socio-economico di un Sud industriale post-Cassa.
Ma la gestione D’Amato non ha minimamente metabolizzato la novità che egli stesso sembrava rappresentare, tant’è vero che si è risolta in una politicizzazione della Confindustria più scoperta e meno motivata di quanto non fosse quella attuata negli anni ’60 sotto la presidenza di Furio Cicogna. Una politicizzazione sancita dalla cambiale in bianco concessa al centro-destra nella fatidica assemblea di Parma, al punto che l’attacco all’articolo 18 è parso il vero cemento dell’alleanza fra Confindustria e governo.
Questa circostanza ha avvelenato lo scontro sociale facendo perdere due anni a una dialettica fra i partner sociali che non può accendersi o spegnersi a seconda della coalizione in carica. E’ pertanto è sintomatico che quella tremenda lotta, dove la tutela del lavoro si compendiava in un diritto simbolicamente rilevante ma costituzionalmente inesistente, abbia deciso la sorte personale dei suoi due massimi protagonisti.
Nella storia della Confindustria, lo schiacciante successo ottenuto da Luca di Montezemolo ancor prima che la procedura elettorale fosse conclusa, si contrappone alla tormentata procedura e alle oscillanti opzioni da cui Antonio D’Amato era uscito vincente e Carlo Callieri sconfitto. La formazione di un siffatto consenso intorno a Montezemolo è un segnale di svolta. Una svolta non già contro la Confindustria di D’Amato bensì della Confindustria stessa che lo aveva eletto perché rappresentasse le novità socio-economiche e socio-antropologiche emerse nel ceto imprenditoriale. Una svolta che Nicola Tognana, pur avendo gestito la partita dello Statuto, non poteva rappresentare se non altro perché nella corsa alla presidenza sembrava godere dell’appoggio di D’Amato.
Non credo che, scegliendo Montezemolo, gli imprenditori italiani scelgano di tornare alla situazione “ex ante”, cioè prima dell’elezione di D’Amato. Credo che essi intendano tornare alla situazione “ex post”: quando la Confindustria poteva intraprendere il duplice cammino che, in fondo, ci si attende anche dai sindacati: una revisione profonda del modo di interpretare interessi e aspirazioni sia degli affiliati sia della più ampia platea rappresentata, e una ripresa feconda del modo di porsi nelle relazioni reciproche (più dialogo e meno conflittualità) e nei rapporti con le istituzioni (più autonomia e meno ideologia).
Bisogna infatti ripetere che i partner sociali, a cominciare dalla Confindustria e da Cgil-Cisl-Uil, escono male dall’ultimo triennio, tant’è vero che contano adesso meno di quanto contavano all’avvento del centro-destra. Basti dire che il documento unitario sullo sviluppo, frutto nel 2003 di un “dialogo sociale” fra soggetti che nel 2002 si erano combattuti all’arma bianca, non è stato ritenuto degno né di una discussione né di una convocazione a Palazzo Chigi. E che la scottante questione dei licenziamenti è stata soltanto rinviata, mentre è passata con poche migliorie una brutta riforma del lavoro.
Ma la colpa non è soltanto né sempre del governo. L’inadeguatezza dei partner sociali spicca soprattutto sul problema della struttura contrattuale e della politica dei redditi. Sono passati più di 10 anni dal Protocollo del 1993 ma imprenditori e sindacati non hanno una linea omogenea all’interno delle proprie organizzazioni, e tanto meno ce l’hanno fra le varie organizzazioni. Antonio D’Amato sparò a zero contro il contratto nazionale, anche se questa non era la linea di tutti gli imprenditori, ma i sindacati sembrarono credergli e si limitarono a fare muro. Adesso, dopo due anni di lotte sui diritti dei lavoratori e sulle regole del mercato, è scoppiata una questione retributiva ma non c’è traccia di indirizzi univoci neppure su come aiutare la politica dei redditi con la politica salariale. Eppure sono scelte che dipendono innanzitutto da loro.
Ma questo è il minimo. Poi c’è il problema della competivitità del sistema Italia, che richiede ormai di puntare sulle fasce alte di qualità per i mercati emergenti, anziché per quelli maturi. Se questa è la sola salvezza in mercati ormai aperti, allora la via non è il costo del lavoro ma la partecipazione dei lavoratori. E ciò richiede una Confindustria e dei sindacati con idee ben più ampie di ieri, beninteso per la salvezza comune.