Quelle che seguono sono solo alcune riflessioni personali e diversi interrogativi “a caldo”, in attesa di uno studio più preciso sui flussi e sul radicamento sociale del voto espresso. Lo dichiaro subito, perché consapevole io stesso della parzialità di quanto scritto, ritenendo comunque doveroso (per un dirigente della Cgil) non sottrarsi mai alla discussione.
I risultati referendari, in termini di partecipazione al voto prima di tutto e poi dei diversi voti registrati a favore dei quesiti (in termini anche diversi), pongono a tutte le forze sociali e al Paese diversi interrogativi, a cui ovviamente non possono sottrarsi per primi i promotori dell’appuntamento dell’8 e 9 giugno.
Sapendo che l’obiettivo non è stato raggiunto e che quindi è corretto – come ha fatto per primo il Segretario Generale della Cgil in conferenza stampa – parlare di una scommessa non riuscita, di una capacità di mobilitare forze e coscienze risultata alla fine insufficiente.
Ritengo però che, nella giusta e doverosa operazione di analisi e ricalibratura della strategia sindacale, occorra evitare da un lato di omettere i limiti della nostra azione e delle motivazioni – più in superficie e più profonde – di questo risultato negativo e dall’altra di svilire il portato di un tentativo generoso che ha mobilitato comunque più di 14 milioni di cittadini, di cui 12 milioni favorevoli alla richiesta di merito di aumentare alcune specifiche tutele, all’interno di un messaggio più generale di una “riconquista” di protagonismo del mondo del lavoro.
In una società che predilige, anche per motivi comunicativi e sensazionalistici, la banalizzazione dei processi e dei fatti, ritengo che occorra invece assumere la complessità come categoria per una discussione a 360 gradi.
Prima di tutto non mi concentrerei tanto sullo strumento in se ma sul perché il tema del lavoro di qualità, della salute e sicurezza non abbia fatto scattare quel “click” nella testa anche di milioni di donne e uomini che lavorano e che spesso fanno i lavori meno pagati e più precari. O almeno non lo hanno fatto scattare in termini di correlazione tra condizione materiale e strumento (voto diretto) per provare a cambiare le cose. Perché i questiti, nella loro parzialità, non parlavano anche al lavoro dipendente pubblico? Non parlavano alla condizione dei lavoratori autonomi? Ai neo sfruttati del pensiero e della professione? Perché – data la natura abrogativa del referendum – non potevano i quesiti stessi intercettare altre questioni avvertite come prioritarie e per cui serviva un messaggio più propositivo? Potrebbe essere uno degli interrogativi, ma penso che anche affrontandolo così il campo di “ricerca” sarebbe viziato e comunque parziale.
Forse il tema è l’egemonia di un pensiero che si è radicato nella società del consumismo privato, nella smaterializzazione del lavoro, nella diversificazione professionale e creativa e che convive, in milioni di persone, con una percezione diversa della stessa funzione sociale del lavoro, non più strumento di identità o principale mezzo di relazione con l’altro, ma parte – solo parte – di un’indentità plurale. E allora servono pensieri lunghi e un lento ma costante lavoro di “riposizionamento” nei luoghi fisici e simbolici dove tali contraddizioni si annidano, tenendo insieme magari più questioni (per esempio quell’ambientale, così intrinseca ai rapporti di produzione nell’attuale modello capitalista e così poco percepita però come portato anche di un modo di lavorare e produrre).
Vi è poi una questione di comunicazione, di accesso alle informazioni, di impiego corretto dei media e della loro funzione nella società? Certo, anche questo potrebbe essere un campo da esplorare (e sicuramente vi è stato un oscuramento, a partire dalla RAI), ma al contempo l’assuefazione ad una monocultura comunicativa non è fenomeno recente e la capacità di mobilitazione dei media tradizionali non è quella dell’epoca delle tv private del primo Berlusconi o dei quotidiani cartacei che “davano la linea”. Il tema di come presidiare il campo dell’informazione, del sapere critico e della sua corretta diffusione forse si pone in temi più ampi per un soggetto di massa oggi. Riguarda il sindacato, ma anche le altre grandi agenzie sociali, laiche e religiose, nell’occidente mopolizzato dalla cultura delle 100 “battute”.
Vi è poi (o potrebbe esserci) una lettura da parte di un’area del Paese che ha visto forse come impropria la funzione del sindacato confederale che, invece di rilanciare su modelli propriamente sindacali (vertenziali o partecipativi nelle relazioni industriali poco conta), sceglie di rianimare la propria essenza, scommettendo su un terreno per cui strumenti, propensioni, modello organizzativo non erano (e non sono) pensati e tarati? Forse questo è un terreno da esplorare, ma con la consapevolezza che la Cgil (di questo ne sono radicalmente convinto) il suo mestiere sindacale lo fa bene (pensiamo al rinnovo dei CCNL, alla battaglia vinta del rinnovo dei contratti edili o ancora alla vertenza “salariale” nel lavoro pubblico che premia al voto delle RSU la Cgil o, ancora, ai tavoli aperti nel settore multiservizi o a quello metalmeccanico, con Fiom, Fim e Uil al loro quarto sciopero). E se sicuramente si potrebbe fare di più e meglio (vale a partire dal sottoscritto, pensiamo alle tante vertenze negli appalti oggi egemonizzate da fenomeni etnici o dal sindacalismo di base, di quante vertenze come quella di Giuliani Arredamenti abbiamo bisogno) questo non spiegherebbe i limiti di un’azione di miglioramento significativo delle condizioni materiali che altri modelli sindacali (penso a quello del sindacato di mestiere o penso alla linea seguita più recenetemente dalla Cisl, con una legge sulla partecipazione già uccisa nella culla dalle stesse grande aziende a cui si rivolge) comunque non stanno realizzando.
Quindi forse il tema sarebbe capire oggi cosa debba intendersi per nuova confederalità, per capacità di rappresentare e organizzare in termini generali interessi che sono però più molecolari, dispersi, individualizzati, affrontando di petto gli avversari lì dove sono veramente (nella finanza, nella rendita, nel monopolio digitale, nelle imprese più forti e invadenti degli stessi Stati nazionali e – al contempo, altra faccia della “società dei due terzi” – nelle patologie della sotto occupazione, leggasi lavoro nero e sfruttato). E ricercando strumenti e pratiche anche contrattuali più innovative, in un mix di funzione contrattuale più tarata sulle diverse condizione anche individuali e di piccoli gruppi omogenei e maggiori funzioni pubbliciste delle stesse forze sociali (pesa su di me, soggettivamente, l’esperienza per esempio delle Casse Edili). Andando (o almeno provandoci) a reinsediarci in quei luoghi della produzione e della costruzione di relazioni produttive dove siamo assenti o incapaci di prospettare ai diretti interessati anche modelli di organizzazione collettiva all’altezza delle complessità e frammentarietà dell’oggi (e della profonda de-ideologizzazione del lavoro e delle sue funzioni sociali), con sperimentazione contrattuali collettive più differenziate e adattabili.
Altra riflessione: ha preso poi, anche non volendo, negli ultimi giorni in particolare, una piega inaspettata il c.d. “mainstreaming” intorno al messaggio referendario? Per cui – anche riempiendo i vuoti lasciati aperti dalla crisi della rappresentanza politica, in particolare quella democratica e progressista – il referendum si è “partitizzato” (centro sinistra contro Governo Meloni), risucchiando, come un buco nero, il messaggio più generale dei promotori dei referendum e la stessa natura sindacale e di merito della proposta referendaria della Cgil?
Questo spiegherebbe tanto della comunicazione politica “subita” dagli stessi promotori referendari (e probabilmente era inevitabile) ma non giustificherebbe il portato di alcuni risultati specifici, se non leggendo dentro lo stesso voto chiesto dai partiti storici una sorta di dissociazione, per cui “la ricerca della preferenza”, in alcuni ambiti, mobilita più della battaglie delle idee… E allora questo campo sì che meriterebbe in casa PD, AVS e 5 stelle una esplorazione ben più profonda, al di là del tentativo generoso di sostenere questa specifica battaglia…
Questi, molto sommariamente, penso siano dei possibili temi di analisi con cui tutte e tutti (dobbiamo) dovremmo fare i conti.
Sapendo però non disperdere, mentre discutiamo, un patrimonio per quanto contraddittorio fatto da 12 milioni di italiani e italiane che sul punto politico (e tanto concreto) dell’aumento delle tutele del lavoro dipendente hanno condiviso una battaglia ed espresso comunque un bisogno. In particolare due sono le questioni che più di altre dovremmo affrontare in termini costruttivi: sia dal versante del sindacato che dal versante delle stesse forze politiche, sapendo che schematizzare (come faccio io stesso) è utile ai fini espositivi ma sicuramente nella realtà le due dimensioni tenderanno comunque ad incrociarsi.
Al sindacato (tutto) ed in particolare alla Cgil si pone il tema di come far pesare comunque questo consenso, le energie spese, l’aver parlato con lavoratori “dispersi” sul territorio, dentro una stagione di nuova vertenzialità a partire dai luoghi di lavoro e dagli specifici contesti sociali: dal tema degli appalti alla lotta al precariato, dalla contrattazione collettiva alle vertenze lungo quella specifica filiera produttiva fino alla contrattazione sociale per l’assistenza degli anziani, al diritto alla casa, al diritto alla mobilità, ecc. Mettendo queste energie al servizio, dove possibile, anche di momenti di mobilitazione unitaria (anche se oggi il quadro è più complicato) e di alleanze con parti del mondo dell’impresa (su questo, per paradosso, sono meno pessimista viste le esigenze di rispondere alla dequalificazione e de industrializzazione che parte di questo mondo va esprimendo, in un contesto di calo demografico e di emigrazione intellettuale).
Alle forze politiche che hanno sostenuto comunque le ragioni di merito dei quesiti della Cgil si pone invece il tema ancor più strategico di come vivere il tentativo di “rensediarsi” socialmente in “terre e soggettività” non più frequentate (o scarsamente frequentate). Ovvero che quanto fatto in questi mesi non sia stato momento episodico ma parte di un ripensamento strategico per dare soggettività generale ad esperienze parziali, riconquistando ancor prima che alla “causa elettorale” alla esigenza di ricostruire luoghi e soprattutto pratiche politiche dal basso, milioni di donne e uomini disillusi, sconfortati o arrabiati. Esperienze da generare, federare, alimentare sul territorio e in grado di influenzare la rappresentanza istituzionale ma non farsi totalmente sussumere da quest’ultima. Insomma il tema è quanto “il praticato diventi pratica”, quanto “il professato diventi professione”.
Penso che questo livello di discussione, di impegno, di continuità e al contempo di “ricalibratura” sia necessario ed utile. E forse è anche dovuto. Dovuto alle decine di migliaia di donne e uomini che in questi mesi si sono spesi con generosità e altruismo, a partire dai tanti funzionari, delegati, militanti, pensionati e non, studenti e studentesse, ecc..
Valori e passioni che altri possono forse sbeffeggiare, ma non certo noi, militanti e dirigenti del più grande sindacato confederale italiano che ha sempre fatto della partecipazione e del confronto, della sperimentazione la propria principale forza, la sua essenza di “intellettuale collettivo”.
Alessandro Genovesi