di Pier Paolo Baretta, segretario generale aggiunto della Cisl
Dopo il protocollo sul welfare si accelera la discussione attorno alla riforma degli enti previdenziali. Una questione non nuova se si considera che ben due deleghe legislative, quella contenuta nella legge 17 maggio 1999, n.144, e quella, ben più recente, prevista dalla legge 23 agosto 2004, n.243, sono scadute senza esito.
Nei mesi scorsi aveva preso vigore la sollecitazione, proveniente da alcuni ambienti di fonte governativa, di pervenire ad un generale processo di unificazione degli enti. Proposta quasi da subito rigettata dopo l’acquisizione delle diverse posizioni politico – sindacali, emerse sia dall’indagine parlamentare effettuata dalla commissione competente, presieduta dall’on.le, Elena Emma Cordoni, sia dal dibattito più generale.
La discussione che ne è scaturita ha, tuttavia, consentito di focalizzare meglio gli intenti e le finalità del processo di riforma, acquisendo numerose informazioni utili al funzionamento degli enti.
L’agenda dei lavori subisce oggi un’accelerazione importante, grazie al protocollo sul welfare che, oltre ad individuare il termine entro il quale il processo di riordino e la razionalizzazione degli enti dovrà essere completato, ne fissa gli obiettivi strategici e ne quantifica i risultati economici e finanziari. Dunque, siamo davvero di fronte ad una svolta, e non solo per la “clausola” catenaccio” prevista dall’intesa sul welfare a cui fa riferimento anche il presidente dell’organo di indirizzo e vigilanza dell’Inps, Francesco Lotito, in un suo articolo pubblicato nei giorni scorsi su Il Diario del Lavoro. La svolta, invece, si preannuncia tale perché sembra profilarsi, finalmente, una soluzione, da costruire “in progress”, che pone l’accento su tre obiettivi fondamentali:
il superamento della proposta basata sull’ente unico, con il riconoscimento di due diversi poli, in relazione alle specifiche funzioni svolte e agli interessi tutelati; la valorizzazione del ruolo delle rappresentanze sociali, all’interno degli istituti, partendo da una critica sul funzionamento dell’attuale modello di governance; la razionalizzazione di alcuni strumenti ed attività degli enti, attraverso lo sviluppo delle sinergie, individuate anche dal protocollo sul welfare.
Si sono, dunque, progressivamente andate sbiadendo le suggestioni lanciate sull’ente unico, evidenziando i rischi di un’elevata concentrazione del potere, sia dal punto di vista politico che economico.
L’analisi ha, infatti, evidenziato la clamorosa incoerenza della politica che, da un lato, con la proposta dell’ente unico, annunciava la volontà di snellire ed accorpare, ma contemporaneamente lasciava presagire una pericolosa operazione di lottizzazione e occupazione delle cariche amministrative e direttive. Cosa che negli ultimi anni è avvenuta puntualmente in occasione del rinnovo degli organi degli enti previdenziali.
Il punto è che qualunque operazione di riordino deve partire dalla necessità di riconoscere l’organizzazione più adeguata a rispondere alle esigenze di miglioramento delle prestazioni erogate dagli enti, anche in relazione all’evoluzione della legislazione previdenziale, socio – assistenziale e sanitaria che il Paese ha subito in questi anni.
Non vi è chi non veda la necessità di un restyling dell’attuale configurazione del sistema degli enti previdenziali. Ma il riordino e i processi di razionalizzazione devono essere funzionali, inquadrati in una strategia complessiva che abbia come risultato l’efficienza e l’efficacia dell’attività e dei servizi, a beneficio degli utenti. L’alternativa è quella di sommare i disservizi, le diseconomie di costo e i processi burocratici, senza riformarli.
E’ una riflessione da tenere presente anche adesso, tramontata definitivamente l’ipotesi dell’ente unico, per evitare di riproporre logiche analoghe anche nella fase di implementazione di ulteriori proposte.
Le stesse sinergie devono rispondere più a logiche funzionali che non di controllo politico di attività o fasi del servizio. Il rischio, altrimenti, è che rispetto ai risparmi preventivati si determinino maggiori costi futuri ed inefficienze.
Negli ultimi anni il processo di armonizzazione delle regole previdenziali ha semplificato, per un verso, alcune realtà, riguardo alle specificità dei regimi e delle attività svolte dai diversi enti. Ma esistono ancora molte differenze di contenuto, in ordine anche alla natura delle prestazioni erogate. Ad esempio, alcuni enti gestiscono istituti che tengono conto delle specificità dei singoli settori (è il caso dell’Inpdap, che gestisce il Tfr dei pubblici dipendenti, cosi come dell’Ipsema) o che svolgono funzioni importanti sul versante della gestione assistenziale.
C’è, inoltre, il problema dell’autonomia degli enti e delle casse professionali privatizzati. Pensiamo alla pericolosa operazione di scioglimento dell’Inpdai, con relativa confluenza del fondo in quello dell’Inps. I processi di accorpamento, insomma, di per sé non producono necessariamente risparmi. La proposta più valida è quella dei due poli, uno, relativo alla sicurezza e alla salute; l’altro alle prestazioni di tipo previdenziale, all’interno dei quali si addenserebbero specificità ed autonomie funzionali da preservare, valorizzare ed armonizzare. Questa soluzione può rappresentare l’uovo di Colombo di una riforma che deve produrre risultati concreti e non, al contrario, avere effetti solo propagandistici.
Su questo punto c’è ancora molto lavoro da fare. Ciò che è apparso chiaro, sia durante le audizioni della commissione parlamentare, sia nelle numerose occasioni di incontro pubblico e di lavoro dei mesi scorsi, è la necessità che i processi di riforma vengano effettuati con il più ampio coinvolgimento delle rappresentanze sociali. E questo, non soltanto in relazione agli interessi tutelati dei lavoratori e dei pensionati, beneficiari delle prestazioni degli enti, ma anche in quanto i processi di riordino e lo sviluppo delle sinergie, richiedono la predisposizione di piani industriali che coinvolgono i dipendenti stessi degli enti.
Il polo della previdenza deve distinguere nettamente la previdenza privata da quella pubblica. Si possono individuare dei momenti di coordinamento di singole unità o fasi del servizio ma, sostanzialmente, oggi le funzioni in capo ad Inpdap ed Inps rispondono, obiettivamente, a logiche molto diverse, frutto anche dei differenti livelli di interlocuzione (con le imprese private, l’Inps, e con lo Stato, il parastato e il sistema delle autonomie locali l’Inpdap).
Per il polo della salute, infortunistica e sicurezza si tratta di chiarire anche il rapporto che sussiste con altre istituzioni pubbliche, come ad esempio nel caso delle prestazioni sanitarie in caso di infortunio sul lavoro o le prestazioni risarcitorie finalizzate alla riabilitazione. E’ evidente che occorre creare delle interrelazioni con altri organismi pubblici territoriali. C’è inoltre, la funzione di prevenzione e di assicurazione, con delle potenzialità spesso inespresse.
Il secondo aspetto riguarda la governance. Quale ruolo debbono svolgere le parti sociali? Bisogna restare ancora con il modello duale attuale, oppure occorre ripensare il rapporto fra amministrazione, indirizzo e controllo? Nel passato abbiamo assistito ad una clamorosa ingerenza della politica che, a parole, proclama la volontà di snellire e semplificare, ma nei fatti ha occupato qualunque posizione di potere, attraverso la lottizzazione di tutti i posti disponibili nei consigli di amministrazione, presidenze e direzioni generali. Fortunatamente, in molti casi, i soggetti prescelti si sono dimostrati all’altezza del compito, ma è la logica che non è accettabile.
L’attuale sistema di gestione, definito impropriamente “duale” (ma che non va confuso con il più moderno modello di gestione dualistico, introdotto dalla recente riforma del diritto societario), nacque dopo la repentina scelta delle parti sociali di uscire dai consigli di amministrazione.
Allo stato attuale i principali punti critici del sistema in vigore possono ricondursi alla perdita di ruolo e di presenza delle parti sociali e nella mancata attuazione della separazione tra funzioni di indirizzo strategico e funzioni gestionali. La norma attuale è carente in un presupposto fondamentale, che è quello che regola i rapporti tra gli organi dell’ente. In mancanza di una concreta esigibilità degli indirizzi e delle delibere predisposte dal Civ, nonché di modalità per l’esercizio dell’attività di vigilanza (che di fatto comportano mera attività, per il Civ, di solo indirizzo e non anche di vigilanza), sostanzialmente si registra una autonomia nei comportamenti dei vari organi, creando spesso conflittualità, sovrapposizione o invasione di competenze.
Ma il Governo oggi penetra l’attività degli enti in altre fasi molto più delicate. La normativa attuale prevede da parte dei ministeri vigilanti un controllo “ex post”, e non “ex ante”. Invece si rileva un intervento sempre più marcato anche sulla gestione (vedi i numerosi interventi legislativi e amministrativi che hanno condizionato gli investimenti e che incidono sul patrimonio immobiliare degli enti, nonché sulla operatività degli stessi).
Il modello che sembra più adeguato ad assolvere ai compiti suddetti é quello introdotto dalla recente riforma del modello societario, ovvero un modello di gestione dualistico che preveda, accanto ad un organo a cui siano affidati compiti di amministrazione e gestione, un comitato di vigilanza, composto dalle rappresentanze delle parti sociali, e che accorperebbe le funzioni di indirizzo e controllo.
Il terzo aspetto chiama in causa le sinergie previste dal protocollo sul welfare. I risparmi da realizzare nell’arco di un decennio sono stati quantificati in 3,5 miliardi di euro. Non è un risultato di poco conto ma si può raggiungere attraverso un serio piano industriale alla cui predisposizione possano lavorare, insieme, Governo, rappresentanti delle parti sociali e dirigenti e funzionari dei diversi enti. Anche qui bisogna evitare i rischi che le diseconomie organizzative producano danni, disservizi e oneri maggiori dei risparmi che si vuole realizzare. Ad esempio, l’unificazione delle piattaforme informatiche è un obiettivo da realizzare, ma coinvolge questioni delicate, relative alla gestione della privacy, ai rischi di concentrazione dell’offerta dei servizi, all’adattabilità e flessibilità del sistema alle diverse realtà.
Ad esempio, non si possono implementare politiche del personale (turn over, percorsi di carriera, riqualificazioni professionali) senza tenere conto delle natura diversa di alcuni enti. Insomma, più che partire dall’obiettivo di comprimere il volume complessivo degli organici bisognerebbe iniziare con il verificare i fabbisogni di competenza professionale specifica, a cominciare dalle funzioni manageriali. Si tratta di un qualcosa su cui vale sicuramente la pena discutere, per le evidenti ricadute anche a livello della contrattazione integrativa. Ma non si può pensare di farlo senza coinvolgere la parte sindacale!



























