di Renata Polverini, segretario generale Ugl
Uno dei primi dibattiti sul rapporto tra il sindacato ed il nuovo soggetto politico che si sta formando in Italia è sorto, all’inizio dell’anno, grazie al contributo – come sempre ispirato e stimolante – di Emanuele Macaluso, in risposta ad un intervento di Achille Passoni. Replicando al segretario confederale della Cgil che auspicava per il Pd un ruolo da partito del lavoro, il vecchio saggio della sinistra italiana osservava che il sindacato, prima di chiedere unità d’intenti (riformisti) alla politica, doveva trovare (o ritrovare) esso stesso la via dell’unità. A quel tempo Epifani ancora non aveva notificato a Prodi la fine dell’entente cordiale sancita al momento della presentazione del programma dell’Unione e ulteriori convergenze sembravano alla portata. Non è mai bello citarsi e, quindi, rinviamo chi nutrisse un qualche interesse per la nostra posizione su quel dibattito a recuperare una copia de Il Riformista del 7 febbraio scorso.
In questi sette mesi, peraltro, la situazione più che cambiata si è andata chiarendo. Un merito ce l’ha la spettacolare discesa in campo di Walter Veltroni ed il recente “decalogo” che ha affidato alle ospitali colonne del Corriere della Sera per delineare un blando riformismo, tutto incentrato sull’ingegneria elettorale, che ha oscurato i già pallidi riferimenti al mondo del lavoro fatti nell’esordio torinese. Debbo confessare di non essermi appassionata troppo alla lettura dei programmi dei competitors del sindaco della Capitale: da Rosy Bindi a Mario Adinolfi, per finire ad Enrico Letta che, almeno, è l’unico a sembrare un contemporaneo, e non solo per il mezzo che ha scelto di usare per farci conoscere il suo pensiero.
Qualcuno potrà osservare che, per quanto ha dimostrato di contare quello elettorale dell’Unione, leggere i programmi è tempo perso. Forse, però è già molto indicativo, per chi pratica il nostro mestiere, capire quanta attenzione si dedica alla causa dei più deboli, alle famiglie, ai pensionati, alle lavoratrici ed ai lavoratori, ai giovani. Francamente le risposte ancora mancano soprattutto se, a differenza della parrucchiera della signora Franzoni che non riusciva ad orientarsi nel nuovo percorso ad ostacoli per andare in pensione, si ha qualche capacità di dividere la propaganda dagli impegni concreti.
Ma quello che più sconcerta, soprattutto in questo momento, è la delega totale ai partiti ai quali, di fatto, il movimento sindacale sta consegnando – ben oltre le dispute nella sinistra radicale e non – la rappresentanza degli interessi dei lavoratori e dei pensionati. E, forse, volendo accogliere anche qualche critica che da più parti ci viene rivolta, pure dei giovani.
Passare dalla sindrome del “governo amico” a quella del “partito unico di riferimento” sarebbe, da questo punto di vista, devastante. Il punto, allora, è che occorre superare il retaggio della cinghia di trasmissione tornando a rappresentare, sempre in un’ottica confederale e, dunque, nazionale, le istanze del mondo del lavoro senza “pre-giudizi” che distorcono la realtà e deviano anche i tracciati più profondi, le rotte più sicure. L’antiberlusconismo – e chissà se qualcuno si sta domandando se ne valeva davvero la pena – è ormai soltanto una foglia di fico che non riesce a coprire il merito delle questioni.
Torniamo a chiederci, insomma, se quello che ci viene chiesto nei vari Dpef o leggi finanziarie, è accettabile o meno: soprattutto proponiamo noi, noi parti sociali e sindacati, una visione della società più equa e più giusta, più disponibile verso le donne, più aperta verso i giovani, più riconoscente verso gli anziani, più generosa con chi lavora. Le sintesi, a livello politico, sono sempre necessarie, ma diventano pericolose se a sorreggerle non c’è un percorso (e un consenso) trasparente e democratico.