di Mario Ricciardi – docente di relazioni industriali, Università di Bologna
Che sia la volta buona, per la riforma del sistema contrattuale italiano? Il confronto apertosi in questi giorni tra imprese e sindacati è caratterizzato dall’incertezza, e sono numerosi i dubbi e i segnali contraddittori che rendono imprevedibile l’esito del confronto.
Occorre ricordare innanzitutto che non è la prima volta che le parti sociali si accingono all’impresa di riformare il protocollo del luglio ‘93. Il tentativo più noto risale alla fine del 1998, quando, dopo un lustro dalla sua sottoscrizione, i tre partners della concertazione si proposero di verificare il funzionamento dell’accordo, e di introdurre le conseguenti modifiche, Fu anche istituita una commissione di studio, sotto la presidenza di Gino Giugni, che lavorò bene. Nonostante ciò il tentativo fallì, e il patto di Natale non produsse alcun aggiornamento del sistema contrattuale, se non alcune regole procedurali, piuttosto barocche, per la concertazione sociale. Più di recente, lo stesso Libro bianco aveva proposto una linea fortemente revisionista rispetto al sistema del protocollo. Ciò non ha determinato, com’è noto, alcuna modifica formale dei meccanismi da esso previsti, anche se lo svuotamento della concertazione, e in particolare delle c.d. sessioni di politica dei redditi, ha certamente contribuito a determinarne ed approfondirne la crisi.
Lo scenario in cui si svolge il nuovo confronto è in parte mutato rispetto agli ultimi tempi. La virata più evidente è stata quella compiuta di recente da Confindustria. Anche se è certamente prematuro trarre indicazioni definitive sul nuovo corso impresso alla maggiore organizzazione imprenditoriale italiana dal nuovo presidente, non v’è dubbio che i cambiamenti rispetto alla precedente linea confindustriale sono evidenti. Per fermarsi a quelli più direttamente attinenti alle relazioni industriali, sembra essere tramontata l’ossessiva centralità attribuita per un lungo periodo al problema della flessibilità nel mercato del lavoro, per spostare il focus dell’attenzione sui temi delle politiche industriali e dello sviluppo: del resto, è davvero difficile immaginare cos’altro si potrebbe escogitare in tema di flessibilità del lavoro dopo l’entrata in vigore della legge 30. La prudenza nel valutare la portata della svolta è tuttavia consigliabile, innanzitutto perché Confindustria, come tutte le grandi organizzazioni, è una macchina complessa e composita, che richiede dunque tempi lunghi per le correzioni di rotta, in secondo luogo perché è bene non dimenticare che lo “stile Agnelli” al quale visibilmente sembra richiamarsi l’attuale leadership imprenditoriale, è stato storicamente capace di principesche disponibilità di dialogo, ma anche di notevoli durezze nella concreta gestione delle relazioni sindacali.
Sull’altro fronte, i sindacati non sembrano ancora aver scoperto davvero le loro carte, e ciò può dipendere in parte da ragioni tattiche, in parte dalla complessità dei problemi che si devono affrontare. Le grandi linee delle posizioni, così come sono note (la Cgil più attenta a salvaguardare il contratto nazionale, Cisl e Uil favorevoli a un maggiore decentramento, che tenga conto delle differenze aziendali e territoriali), corrispondono, come è noto, a opzioni storiche, oltre che a referenti sociali in parte diversi.
Su tali differenze si inseriscono poi le linee di frattura più recenti, figlie di una stagione nella quale non sono mancati gli sgambetti, e si sono sedimentate fin troppe diffidenze. La prudenza è dunque, anche in questo caso, d’obbligo, anche se uno sguardo proiettato un poco meno sulle polemiche contingenti porta a far sembrare le differenze non poi così inconciliabili, visto che comunque si tratta di introdurre correttivi dentro un sistema che tutti vogliono rimanga bipolare. Le differenze di orientamento riguardanti il sistema contrattuale si collocano inoltre dentro una storia lunga del sindacalismo italiano che, da qualunque prospettiva la si guardi, appare più intrisa di elementi di convergenza che di fratture, come dimostra anche il fatto che, nonostante difficoltà e polemiche, le organizzazioni sindacali hanno continuato e continuano a stipulare unitariamente contratti di lavoro anche fortemente innovativi in settori cruciali, e che la vicenda dei metalmeccanici appare per fortuna un’eccezione, e non un esempio. Un dato è comunque certo, ed è che l’individuazione di una posizione comune tra le maggiori confederazioni appare necessariamente preliminare all’apertura di una trattativa, non solo per la natura, per dir così “costituzionale”, di un nuovo accordo, ma soprattutto per l’esigenza di impiantarlo su basi solide e in grado di resistere nel tempo.
Quanto al terzo interlocutore delle relazioni industriali, il Governo, esso è oggi il soggetto di cui è probabilmente più difficile decifrare, su questa materia, intenzioni e comportamento. Archiviate di fatto anche le linee di comunicazione con il sindacato enunciate inizialmente nel Libro bianco, il rapporto tra Governo e sindacati ha avuto lungamente l’encefalogramma piatto, segnando una netta prevalenza dei settori della maggioranza più orientati in senso thatcheriano. Il cambio di orientamento di Confindustria e i ripetuti segnali provenienti dall’elettorato sembrano avere negli ultimi tempi almeno in parte riaperto i giochi, ridando fiato ai settori storicamente più attenti, invece, ad un rapporto con le forze sociali. Anche qui occorre tuttavia osservare le cose con molta prudenza, non solo per la fase di instabilità che attraversano i rapporti interni alla maggioranza, ma soprattutto per la difficoltà di immaginare, nell’attuale contesto, l’aprirsi di una fase di reale confronto che farebbe ruotare di centottanta gradi la linea di politica economica più volte ribadita in varie fasi della legislatura.
Le osservazioni sul ruolo del terzo interlocutore implicano un ragionamento anche sul metodo da intraprendere per arrivare alla riforma, se bipolare o trilaterale. Storicamente tutte le fasi di svolta nel sistema contrattuale hanno visto l’intervento del terzo attore. La memoria corre inevitabilmente al biennio 1992-93, ma si possono riportare alla memoria anche episodi più lontani. Tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta, una precedente fase di svolta del sistema contrattuale, che portò all’instaurarsi della contrattazione c.d. articolata, vide anch’essa un ruolo decisivo del Governo, giocato sia direttamente che attraverso (allora) il braccio secolare dell’industria pubblica. Non è solo questione di politicizzazione del sistema di relazioni sindacali italiano, anche se pure questo conta. Occorre ricordare, innanzitutto, che lo Stato è anch’esso un datore di lavoro; ma il fatto è, soprattutto, che una trattativa sul sistema contrattuale è in realtà una trattativa su questioni (come il potere d’acquisto, la competitività, ecc,) che non sono affrontabili in una dimensione soltanto bipolare. Logica vorrebbe, insomma, che il negoziato fosse trilaterale. Se ciò non è possibile, anche la via alternativa dell’accordo bilaterale non potrà che incappare prima o poi in scelte di politica economica, e quindi coinvolgere il terzo interlocutore. Dopo l’accordo separato del patto per l’Italia e il flop del successivo accordo interconfederale mai nemmeno preso in considerazione dall’esecutivo, anche questa strada appare però irta di difficoltà.
Il problema del rapporto tra sistema contrattuale e temi d’ordine più generale appare ancora più evidente se si entra nel merito dei problemi. C’è una questione che rimane centrale, ed è quella della tutela dei salari rispetto all’inflazione, e più in generale di come determinare la dinamica salariale per l’insieme del mondo del lavoro dipendente. A questo proposito si possono certamente semplificare alcuni dei meccanismi previsti dal protocollo del ‘93, che si sono rivelati assai macchinosi e conflittuali. Ma resta, comunque, il problema della difesa del potere d’acquisto dei salari, che è la base della pace sociale, e che non si risolve né evocando nuovi automatismi né cercando nomi nuovi per l’inflazione programmata. L’esperienza insegna, in realtà, che la definizione di aumenti retributivi compatibili con la crescita economica è legata a doppio filo con l’attivazione di meccanismi concertativi (o comunque li si voglia chiamare) capaci di realizzare scambi, compensazioni e punti di convergenza generali, e su diversi piani,tra le parti sociali e il Governo. Così come appare evidente che la redistribuzione della produttività a livello aziendale può davvero segnare un incremento di qualità del sistema soltanto se si individuano strumenti di coesione e di partecipazione reale a livello d’impresa, e non solo.
Al di là delle schermaglie, è dunque la soluzione di alcuni problemi di fondo che potrà consentire o meno l’auspicabile, e rapida, riforma delle regole del sistema contrattuale nel nostro Paese.