Nel 2025 i salari italiani tornano a crescere, ma restano lontani da un livello dignitoso. Secondo i dati ISTAT di giugno, le retribuzioni contrattuali sono aumentate del 3,4% su base annua, con una previsione tendenziale del 3,1% a dicembre. Un risultato ottenuto grazie al rinnovo di alcuni contratti nazionali, in particolare nei settori chimico, edilizio e dei trasporti, che hanno finalmente introdotto incrementi superiori all’inflazione, oggi attestata all’1,7%. In questa stessa direzione va salutato positivamente il recentissimo rinnovo del contratto del lavoro domestico. In questo caso , dal 2013 il salario era adeguato all’80% in assenza di accordo tra le parti ed oggi viene ulteriormente migliorato grazie al ruolo della contrattazione. Possiamo ritenere dunque che sia il meccanismo di recupero rispetto all’ inflazione l’anno successivo previsto in alcuni CCNL , che questo risultato relativo al lavoro domestico, in cui il lavoro povero e debole aveva trovato un sostegno legislativo in assenza di rinnovo del CCNL, ci confermano che che la contrattazione funziona ancora meglio se e quando dispone di un supporto legislativo.
Tuttavia, la ripresa non basta: la perdita salariale accumulata tra il 2021 e il 2024 rimane pesante, stimata in circa il 9% in termini reali.
Tradotto in cifre, significa che un lavoratore medio guadagna oggi circa 2.000 euro reali in meno rispetto al 2010. La perdita cumulata di potere d’acquisto nel quinquennio 2021-2025 non sarà inferiore ai 9.000 euro. È un arretramento storico che colpisce soprattutto i lavoratori a basso reddito e i giovani precari, in un mercato del lavoro ancora troppo frammentato.
Oggi in Italia oltre 6 milioni di persone – secondo alcune stime – lavorano con un reddito inferiore agli 11.000 euro l’anno, meno di 850 euro netti al mese. Sono impiegati nei servizi, nella logistica, nella ristorazione, nella scuola, spesso con contratti intermittenti o part-time involontari. È una fascia di popolazione che vive stabilmente sotto la soglia della povertà pur lavorando. Un’anomalia strutturale che nessuna crescita del PIL o incentivo fiscale potrà correggere se non cambia la politica del lavoro e del reddito.
A questo quadro si aggiunge un secondo elemento: il peso del fisco. La pressione fiscale complessiva è passata dal 41,6% al 42,6% in due anni, non per nuove tasse, ma per effetto del cosiddetto fiscal drag, la tassa invisibile che deriva dall’inflazione. Quando i salari crescono nominalmente ma le soglie fiscali restano ferme, il lavoratore finisce per pagare più tasse a parità di potere d’acquisto. Tra il 2022 e il 2023, questa distorsione ha generato circa 25 miliardi di entrate aggiuntive per lo Stato, prelevate soprattutto da lavoratori e pensionati: mediamente 2.000 euro in più di tasse a testa.
Il Governo avrebbe potuto intervenire nella Legge di Stabilità con misure di compensazione, come la restituzione di almeno 1.000 euro per contribuente o il ripristino della vecchia norma sul drenaggio fiscale — quella che prevedeva la restituzione automatica del fiscal drag quando l’inflazione superava il 2%. Era in vigore tra il 1990 e il 1992, poi sospesa. Ripristinarla sarebbe un segnale di equità e di responsabilità verso il lavoro dipendente, che oggi resta la spina dorsale del gettito fiscale nazionale.
La previsione della detassazione al 5% per gli aumenti contrattuali fino a 28.000 euro lordi è una misura positiva, chiesta da anni dai sindacati. Ma è limitata: esclude il pubblico impiego e non riguarda i redditi superiori, creando nuove disparità. Inoltre, è temporanea. Nonostante la propaganda i benefici per i lavoratori dipendenti sono davvero limitati a pochi euro: un caffè al giorno aiuta , ma non risolve la questione di un adeguato incremento del salario netto.
Inoltre nel 2028, con il ritorno alle aliquote ordinarie e il riemergere del fiscal drag, il rischio ulteriore è che i benefici attuali vengano cancellati da una nuova ondata di erosione salariale. Intanto, circa 6 milioni di lavoratori attendono ancora il rinnovo del contratto collettivo, con ritardi che superano i 20 mesi. È un problema strutturale del sistema contrattuale italiano, dove le trattative si trascinano per anni e gli aumenti arrivano quando l’inflazione ha già eroso il potere d’acquisto. Un meccanismo che si traduce in ingiustizia salariale e in perdita di fiducia verso la contrattazione collettiva.
Un segnale positivo sarebbe reintrodurre un premio d’incentivo per chi rinnova i contratti entro la loro scadenza naturale e una regola che obblighi le parti sociali a presentare le piattaforme di rinnovo almeno sei mesi prima. Inoltre, un protocollo d’intesa tra sindacati, Confindustria e Governo — una vera alleanza tra produttori — potrebbe sancire una “via alta” allo sviluppo: salari, produttività, investimenti e innovazione come pilastri di una nuova politica industriale.
Il confronto europeo mostra quanto l’Italia sia rimasta indietro. Secondo l’OCSE, il salario medio annuo lordo in Germania nel 2024 ha superato i 54.000 euro, in Francia i 45.000, in Spagna i 31.000, mentre in Italia si ferma a poco più di 33.000. Ma la differenza vera sta nel salario reale e nella produttività: un lavoratore tedesco produce in media il 30% in più di un italiano, uno francese il 20%, uno spagnolo solo il 5% in meno.
La dinamica salariale segue questa gerarchia. In Germania, dopo la crisi energetica, il Governo Scholz ha spinto la crescita dei salari minimi (+6% nel 2023 e +4% nel 2024), portandoli a oltre 12,40 euro l’ora. In Francia il salario minimo è indicizzato automaticamente all’inflazione, garantendo che nessun lavoratore perda potere d’acquisto. In Spagna, la politica del governo Sánchez ha innalzato il salario minimo del 54% in cinque anni, sostenendo la domanda interna e riducendo la disuguaglianza.
In Italia, invece, il salario minimo legale non è mai stato introdotto, e il sistema contrattuale è rimasto l’unico baluardo. Ma il suo potere si è indebolito con la frammentazione produttiva, la diffusione di contratti pirata e l’aumento dei lavori precari. Secondo Eurostat, oltre un quinto dei lavoratori italiani guadagna meno del 60% del salario mediano europeo. È il segno di un Paese dove si lavora tanto, si guadagna poco e si paga troppo.
Il problema dei salari bassi non è solo una questione sociale, ma industriale. Senza una politica di crescita della produttività, la bassa retribuzione diventa l’unico strumento di competitività, condannando il Paese alla rincorsa al ribasso. È qui che serve un nuovo piano di politica industriale: investimenti selettivi nei settori ad alto valore aggiunto, incentivi alla crescita dimensionale delle imprese, integrazione tra ricerca, università e produzione, digitalizzazione dei processi e formazione continua.
Un piano di medio periodo, coordinato con l’Europa, capace di rilanciare l’industria manifatturiera — che resta la più solida base economica del Paese — ma anche di sostenere servizi innovativi, green economy e filiere tecnologiche. Senza questo salto di qualità, ogni aumento salariale rischia di essere limitato o vanificato. Ma come affrontare con efficacia, quindi con una speranza di successo, questo grande nodo?
L’esigenza di fondo è quella di costruire una politica dei redditi concertata, di cui l’esperienza migliore nella realtà italiana resta quella del grande accordo tra governo e parti sociali del 1993. Una politica dei redditi in grado di governare la dinamica dell’insieme dei redditi e non solo di una parte, di far crescere i salari in linea con l’andamento del costo della vita, di aiutare i salari e i contratti più debole a crescere in modo da raggiungere livelli dignitosi .
Sono diverse le leve contrattuali e normative – tra cui il salario minimo legale – che possono supportare un trend di crescita significativa dei salari, immaginato non solo come un fattore di. giustizia per i lavoratori, ma come un volano per la nostra economia. Per compiere un’operazione di questo genere proprio questa appare la chiave di volta : una varietà di strumenti , la mobilitazione cooperativa dei principali attori. Sappiamo però che nonostante negli ultimi mesi si sia tornato a parlare in Italia di patto sociale , questa prospettiva di maggiore spessore, che richiede una forte convergenza tra governo e parti sociali , non appare in questo momento all’ordine del giorno.
Quello che nell’immediato appare più praticabile è l’aggiornamento dell’ Accordo interconfederale del 2018 ( il cd. Patto per la fabbrica) . Un impegno tra le due parti sindacale e datoriale per garantirne un aggiornamento , la generalizzazione anche ai settori più deboli, e nello stesso tempo per assicurare un collegamento , più stretto di quanto non fosse stato previsto in una fase di bassa inflazione, tra andamenti del costo della vita e dinamica salariale.
Come è noto, il governo ha scelto di muoversi su un’altra strada, che si trova tracciata nella recente Legga delega n.144 in materia di contrattazione e di retribuzioni. Era chiara da tempo la fatica del nostro sistema di relazioni industriali riguardo a questa materia, insieme all’esigenza di rafforzare le certezze per tutti i soggetti implicati.
In sintesi la chiave di volta dell’approccio seguito dal governo consiste nel puntare sulla ‘via contrattuale’ , dunque verso il rafforzamento della contrattazione collettiva, come strumento principe per affrontare i diversi deficit dei salari italiani. Viene dunque esclusa l’opzione legislativa, che avrebbe potuto riguardare tanto la misurazione della rappresentatività dei sindacati e delle associazioni datoriali, che l’introduzione del salario minimo legale. Come è ben noto, sono diversi anni che si discute intorno all’opportunità di queste misure, che molti ritengono indispensabili.
A questo riguardo bisogna segnalare che l’intento esplicito , che si ravvisa in questo testo, è quello di abbandonare il criterio guida dei sindacati maggiormente rappresentativi, sostituito da quello più vago ed insidioso dei ‘contratti maggiormente applicati’. Quindi non solo viene esclusa una legge, ma ci troviamo davanti ad un palese rovesciamento delle precedenti impostazioni.
Ebbene, bisogna notare che questa formula – contratti maggiormente applicati – si configura come più ambigua e di incerta misurazione, tanto da essere considerata con riserve e sospetto da gran parte degli esperti. Le critiche sono numerose e forte il timore di uno scardinamento dei capisaldi del sistema sindacale italiano. In effetti questo nuovo paradigma di riferimento , come osservano in tanti, corre il rischio di aprire la porta a contratti scadenti, firmati da sindacati e datori privi di effettiva rappresentatività, caratterizzati da tutele ridotte, a partire dai minimi retributivi. Quindi una soluzione tutt’altro che risolutiva.
Continuando in modo sintetico possiamo richiamare positivamente alcune delle misurate evocate nella Legge delega. Come per l’attenzione verso la spinta alla chiusura tempestiva dei contratti , sintetizzata dagli incentivi economici a favore dei lavoratori in caso di mancato rispetto delle scadenze previste. Inoltre in questi casi viene anche chiamato in causa un ruolo più interventista del Ministero del lavoro. Cosa da ritenere per certi versi lodevole, anche se la sua implementazione richiederebbe una qualche cautela e norme di attuazione tali da non scavalcare le parti sociali.
Certamente è da considerare più controversa e molto discutibile la disposizione volta a rafforzare l’incardinamento dei contratti a livello decentrato territoriale, in modo da incrementare la sincronia con gli andamenti locali del costo della vita. Come è noto, le Confederazioni sindacali sono sempre state nettamente ostili verso provvedimenti che, anche in modo mascherato, facessero rinascere le vecchie gabbie salariali abolite alla fine degli anni sessanta. Un intervento siffatto, pur motivato dalla concreta esigenza di tutela del salario reale nelle zone dove è più alto il costo della vita, per risultare davvero equo richiederebbe una attenta calibratura. E soprattutto – non va dimenticato – dovrebbe fare i conti con l’ostacolo strutturale della limitata diffusione della contrattazione territoriale. Una debolezza antica dovuta alla formulazione che la connette alle prassi in atto, come previsto dall’Accordo di concertazione del 1993. Dunque, in carenza di una estensione effettivamente larga di questo livello negoziale, restano forti i rischi di un ulteriore aumento delle disuguaglianze tra i lavoratori.
Volendo esprimere una valutazione generale non si sfugge alla considerazione che questa materia venga affrontata in modo astratto in rapporto alle effettive dinamiche del mercato del lavoro e delle relazioni industriali.
Infatti il fenomeno largamente diffuso dei bassi salari si deve sia all’inadeguatezza dei minimi contrattuali di molti contratti di categoria nel terziario più fragile, sia alla diffusione di rapporti di impiego brevi e brevissimi, sia al rigonfiamento spropositato dei numeri del part-time involontario, ed infine alla disapplicazione da parte di settori non piccoli di imprese dei minimi stabiliti dai contratti. Questo ultimo aspetto poi conduce ad essere meno ottimisti intorno all’ effettiva copertura contrattuale, che i dati ufficiali italiani presentano attualmente come pressoché universalistica.
Tutti questi fattori rendono evidente che – diversamente da quanto sostenuto dal Governo – la contrattazione non è in grado da sola di affrontare con successo il nodo dei salari troppo bassi. Per questa ragione servono piuttosto un pluralità di meccanismi, anche legali, per mettere la contrattazione in condizione di fare bene il suo mestiere. Per esemplificare le finestre aperte e da affrontare sono diverse.
In primo luogo troviamo l’esigenza di rendere più stretta la crescita dei salari in rapporto agli andamenti dell’inflazione, per evitare il divario vistoso manifestatosi nel 2022-23. Al riguardo si può citare il meccanismo, previsto nei contratti metalmeccanici e del legno, di recupero l’anno successivo del differenziale di inflazione maturato: un meccanismo che sarebbe da generalizzare.
Ben vengano in questo ambito , anche attraverso il ripristino dell’obbligo di presentazione delle piattaforme sei mesi prima della loro scadenza, pure gli incentivi premiali per i contratti sottoscritti prima del termine. E’ poi necessario immaginare disposizioni per innalzare , sia pure gradualmente, i minimi salariali dei settori più deboli (vigilanza e non solo), anche per evitare che sia l’intervento dei giudici a risolvere di petto il problema.
Inoltre è chiaro il bisogno di misure precise a supporto dei milioni di lavoratori che guadagnano meno di 11 mila euro l’anno : una soglia sotto la quale si può legittimamente parlare di poveri con lavoro. E’ questo il quadro nel quale può esercitare una funzione positiva anche il salario minimo legale, seppure in raccordo con altri interventi . Anche questa opzione andrebbe affrontata al di fuori da schemi troppo semplicisti. Se il ritratto tratteggiato sopra è verosimile, allora per conseguire una qualche efficacia realizzativa si tratta di mettere in opera un processo complesso. A partire dalla predisposizione non solo di un salario minimo orario, come si dice comunemente, ma anche settimanale e mensile.
Più in generale , come accennavamo, sarebbe utile ragionare su un aggiornamento delle regole di politica dei redditi, fissate nell’Accordo tra Confederazioni sindacali e Confindustria del 2018 (il cd. Patto per la fabbrica). La falsariga da seguire potrebbe essere quella tracciata dai contratti dell’industria e dei bancari , le cui previsioni hanno costantemente consentito una complessiva tenuta dei salari rispetto al costo della vita anche negli ultimi 15 anni. E andrebbe inoltre introdotta nei contratti nazionali la possibilità, avanzata da tempo, di calcolare una quota di salario collegata alla produttività: un ulteriore tassello per aiutare l’incremento delle retribuzioni.
Insomma possiamo sostenere con dovizia di argomenti come la strada maestra da seguire, ove si vogliano conseguire risultati tangibili, è quella di muoversi su più piani e di favorire una integrazione ben bilanciata tra contrattazione e legislazione di sostegno.
Purtroppo se la Legge delega appare – a nostro avviso – inadeguata e non all’altezza dei problemi, dobbiamo osservare come anche l’approccio prevalso nel centro- sinistra non abbia facilitato sin qui la definizione degli strumenti di intervento più appropriati : tanto a causa della distanza crescente di quell’area politica dai problemi concreti dei ceti più vulnerabili, che della ricorrente tendenza a situarsi dentro il perimetro di un ‘ opposizione ideologica.
Intendiamo ribadire che la vastità dei problemi che si sono sedimentati nel corso del tempo richiederebbe di essere aggredita con una sorta di Accordo fondamentale, una sorta di Patto sociale rafforzato, in grado di fornire una cornice stabile ai contratti e ai salari. Insomma serve un patto nuovo tra capitale e lavoro, tra produttori e istituzioni. Un’alleanza che restituisca dignità al lavoro e che riconosca che senza salari più alti non c’è domanda interna, senza domanda non c’è crescita, e senza crescita non c’è futuro industriale.
Il Patto del 2018 ha messo tra le sue priorità l’innalzamento del nostro sistema delle imprese in direzione di una via alta alla competizione, tale da puntare sulla qualità e non dipendere dalla compressione del costo del lavoro.
Ora si tratta di dare seguito e di realizzare quell’impegno programmatico. Un nuovo Patto bilaterale tra Confindustria e Confederazioni sindacali , nella direzione di cui abbiamo detto, oltre a dare un segnale importante al Paese, in prospettiva può costituire la trama di una mirata legislazione di sostegno.
Naturalmente appare importante aggiungere un’avvertenza. E’ diventato ormai vitale – come abbiamo sostenuto – impostare un discorso per ristabilire una maggiore giustizia distributiva attraverso la crescita dei salari.
Ma se si vuole ottenere un successo duraturo serve anche favorire una crescita dell’economia e della produttività, tale da allargare la torta per tutti, e aumentare significativamente le opportunità per i lavoratori.
Per questo è importante sapere che se si intende perseguire con forza questo esito bisogna introdurre novità radicali rispetto alle politiche economiche e della flessibilità del mercato del lavoro, che sono state condotte nell’ultimo trentennio. Per crescere in modo sostenuto l’Italia ha bisogno di puntare sul potenziamento della domanda, a partire dalla crescita dei salari. Salari più alti spingono le imprese in direzione di maggiori innovazioni tecniche ed organizzative , e questo può favorire un maggiore dinamismo e l’aumento della produttività.
Insistere su questo punto va quindi non solo nell’interesse dei lavoratori dipendenti, ma è anche una istanza di portata generale e un bene per l’intero sistema.

























