Stiamo ancora discutendo sul recepimento della direttiva Ue sul salario minimo e ci siamo posti la questione di applicarla? Non ci pare, persi come al solito in problemi economici e politici vari. Ma la direttiva va recepita entro metà del mese di novembre. Se non lo facciamo scatta ancora una volta la sanzione; avanti così e saremo il paese più sanzionato dell’area europea. Ripuntualizziamo i colli di bottiglia. La direttiva europea (COM 2020 682) finale ha l’obiettivo di promuovere livelli adeguati delle retribuzioni dei lavoratori dell’Unione europea per ridurre il c.d. lavoro povero (cresciuto sensibilmente in Europa negli ultimi anni, soprattutto dopo il Covid), combattere le disuguaglianze salariali, colmare il divario retributivo di genere, migliorare l’equità del mercato del lavoro dell’UE, tutelare i datori di lavoro dalla concorrenza sleale basata su bassi salari, aumentare la produttività grazie all’investimento sulle persone.
L’obiettivo di garantire retribuzioni minime adeguate può essere raggiunto sia mediante la contrattazione collettiva, sia per legge, e la contrattazione collettiva è senz’altro sostenuta nella determinazione dei salari, in particolare nei casi in cui la copertura della contrattazione collettiva sia inferiore all’80% dei lavoratori. Ricordiamo che il Cnel ha fornito un materiale a questo riguardo. La direttiva non può imporre l’introduzione del salario minimo legale negli Stati membri, quindi neanche in Italia: dobbiamo eliminare ( anche grazie al rapporto Cnel) falsi miti ed eccessive semplificazioni, in particolare in merito alla polverizzazione e alla crisi della contrattazione collettiva, al numero di lavoratori non coperti da contratti collettivi, alla indegnità dei minimi tabellari dei contratti collettivi e alla funzione espansiva del salario minimo legale rispetto alle dinamiche salariali medie.
A proposito di dinamiche retributive, salario minimo e dei presunti circa mille contratti collettivi nazionali di lavoro depositati al CNEL, meno della metà è effettivamente applicata, mentre i CCNL siglati da CGIL, CISL e UIL, che pure sono una minima parte, coprono il 97% dei lavoratori. Rispetto ai pretesi “milioni di lavoratori” esclusi dall’applicazione dei contratti, i dati disponibili individuano in un massimo di 800mila i potenziali lavoratori esclusi. Considerati potenziali, in quanto non è certa la ragione della mancata attribuzione di un CCNL, non necessariamente perché non sia applicato. Nel nostro Paese non vi è un problema di mancata copertura di contrattazione collettiva, ma resta da comprendere se i contratti maggiormente utilizzati prevedano dei trattamenti salariali eccessivamente poveri. È assai complesso definire una soglia di “dignità”: nel dibattito il riferimento è spesso ai 9 euro lordi individuati nella più nota proposta di legge dedicata e successive discussioni sul salario minimo di dubbia efficacia, ripresentate nella nuova Legislatura con cifra superiore al limite del 50% del salario medio e del 60% del salario mediano individuati come confine del “lavoro povero” dalla direttiva (7,66 euro è il valore soglia di “working poverty” indicato da EUROSTAT nel 2018).
A riprova della complessità della materia, non è assolutamente chiaro se il riferimento sia soltanto al minimo tabellare o se siano da considerare anche gli istituti aggiuntivi aventi valore economico esplicito (tredicesima e TFR soprattutto) e quelli con valore quantificabile (welfare aziendale, buoni pasti, indennità, ecc.). Scorporando i dati INPS e CNEL, si scopre che sono circa 290mila i lavoratori a cui è applicato un contratto rappresentativo attualmente riceventi un trattamento salariare inferiore a 9 euro lordi. Si tratta delle persone impiegate nei livelli più bassi dei contratti dei multiservizi, della vigilanza privata, dell’artigianato, della cooperazione e del commercio. A questi sono da aggiungersi lavoratori domestici (685mila complessivi per ISTAT, molti di più per le associazioni del settore) e addetti alla agricoltura (950mila complessivi). Certamente anche i lavoratori operanti “in nero” sarebbero assai interessati da una norma di questo genere, ma la semplice approvazione della legge non significa che semplificare sia negare la complessità del lavoro. L’applicazione della direttiva nella forma più facilmente comunicabile del “salario orario garantito” di 9 euro lordi avrebbe impatto su meno del 2% dei lavoratori dipendenti italiani; sul 10% considerando anche il lavoro domestico e l’agricoltura, dove però ha un effetto paradossale. Vi sono anche altri lavoratori a rischio povertà, ma, non essendo personale dipendente, sono esclusi dalla copertura dei contratti collettivi: tirocinanti, collaboratori autonomi, lavoratori occasionali, lavoratori in nero e free lance a partita IVA.
La finalità della direttiva è di contrastare il lavoro povero, ma nulla dice sull’innalzamento dei salari medi. Anzi, nel breve periodo è ipotizzabile anche un effetto in senso opposto, poiché nei settori ove i minimi sono sensibilmente superiori a quello che lo stesso legislatore identificherà come equo compenso (ossia la larga parte dei settori in Italia) è difficile per il sindacato, in sede di prossimi rinnovi, ottenere incrementi sostanziosi delle tariffe tabellari, ora per la prima volta confrontabili con un indicatore di “dignità” (a riprova che l’equità non è una dimensione orizzontale, ma che dipende dai contesti specifici, merceologici, di competenza e geografici). C’è il rischio di una fuoriuscita delle imprese più opportunistiche dai contratti collettivi nazionali (sarebbe assolutamente legale) per applicare regolamenti interni riferiti soltanto ai minimi di legge. I nodi connessi alla individuazione di una cifra dettagliatamente indicata, lascia aperta la possibilità di intervento legislativo, il rimando diretto ai contratti comparativamente più rappresentativi a livello nazionale, senza alcuna individuazione della soglia. Non vi sarebbe alcun minimo vincolante, se non quello deciso dalle parti sociali comparativamente (e non maggiormente) più rappresentative.
Il rischio di questa misura è indiretto, e rilevante. Una volta chiarito per legge che deve essere rispettato il minimo del contratto comparativamente più rappresentativo, essendoci nel nostro ordinamento molti contratti che intervengono sugli stessi settori, sarebbe possibile che fossero gli stessi giudici (oltre alla politica) a chiedere al Parlamento una norma di uguale gerarchia legislativa che permetta di individuare senza equivoci i contratti a cui conformare i trattamenti salariali. La c.d. legge sulla rappresentanza è forse il vero obiettivo di molti che oggi sostengono il salario minimo, perché determinerebbe una rivoluzione per il nostro sistema di contrattazione collettiva. Questo in quanto la pluralità della rappresentanza sindacale e datoriale, che negli anni ha dato forma a sistemi contrattuali autonomi e rappresentativi, anche quando alternativi tra loro e anche quando operanti entro lo stesso perimetro, per forza di cose sarebbe da superare se si dovessero individuare per legge i soggetti firmatari rappresentativi, se non anche tratteggiare gli stessi perimetri contrattuali. Vi è senz’altro correlazione tra salario minimo, dignità del lavoro e crescita economica, equazione corretta in linea teorica, ma non calata nel contesto italiano, ove un intervento di questo genere non interesserebbe la larghissima maggioranza di lavoratori (anche tra coloro che ne avrebbero bisogno).
Gli Stati membri dell’UE hanno avuto due anni di tempo per recepire la direttiva sui salari minimi adeguati all’interno della legislazione nazionale ed è chiara la volontà politica della Commissione di imprimere una significativa svolta relativamente all’innalzamento dei livelli salariali all’interno dell’Unione europea, pur con i mezzi giuridici disponibili ai sensi dei Trattati e nel rispetto delle competenze degli Stati membri. In buona sostanza, il problema dei lavori a bassa retribuzione dovrebbe essere ricercato nell’alta diffusione del lavoro irregolare che lascia i lavoratori privi di ogni tutela, compresa quella relativa ai salari minimi contrattuali. Altre cause del lavoro povero sono la discontinuità e frammentarietà dei rapporti di lavoro e il limitato numero di ore di lavoro (c.d. part time involontario). In più si aggiunge anche la crescente diffusione di lavoro occasionale o di forme di lavoro senza contratto (tirocini extracurriculari) che per definizione sono escluse dalla applicazione della contrattazione collettiva.
Se tutto ciò è vero, non si può allora sostenere che la contrattazione collettiva non sia in grado di garantire la fissazione di minimi retributivi adeguati (tranne per alcune identificate basse qualifiche e per alcuni specifici e limitati settori), perché appunto le posizioni lavorative a bassa retribuzione oraria (low pay jobs) sono determinate proprio dalla non applicazione o dalla applicazione non corretta dei contratti collettivi, dall’impiego di stagisti, collaboratori autonomi, lavoratori part-time involontari, lavoratori occasionali e temporanei. Vero anche che la contrattazione collettiva è molto di più della semplice fissazione di un salario. È un processo sociale di costruzione e crescita dei mercati del lavoro, delle professionalità, del welfare negoziale e contrattuale che concorre a creare i presupposti della produttività e della creazione di valore che è la sola ricetta credibile per impostare il problema redistributivo che è il punto terminale di ogni ragionamento e non il punto di inizio. Invocare, allora, il salario minimo legale come soluzione per tutelare le fasce di lavoratori che percepiscono basse retribuzioni, significa non conoscere le dinamiche retributive né le relazioni industriali.
Nessuno è in grado di definire la tariffa meglio degli attori sociali che rappresentano imprese e lavoratori dei diversi settori produttivi. Infatti, i paesi che dagli anni ’90 del Novecento ad oggi hanno introdotto il salario minimo legale come strumento per combattere il fenomeno del lavoro povero, lo hanno fatto perché hanno visto inesorabilmente diminuire la copertura della contrattazione collettiva.
Alessandra Servidori