Nel giugno del 2013, in modo alquanto inusuale, la CGIL ricevette da parte di IGMetall – la federazione dei metalmeccanici tedeschi affiliata alla confederazione DGB – l’invito a partecipare a una conferenza sulle politiche contrattuali e salariali. L’invito aveva un carattere inusuale perché è rarissimo che un sindacato nazionale di categoria inviti a una sua iniziativa una confederazione sindacale di un altro paese, posto che normalmente le relazioni sindacali a livello internazionale avvengono tra strutture analoghe, le confederazioni con le confederazioni e le categorie con le categorie. Comunque sia, la CGIL accettò l’invito e in considerazione degli argomenti oggetto della conferenza inviò una delegazione composta da Elena Lattuada, allora segretaria confederale e responsabile della contrattazione nell’industria, e dallo scrivente in rappresentanza dell’area delle politiche europee.
La conferenza ebbe luogo il 19 e il 20 giugno presso il Bildungszentrum dell’IGMetall a Berlino, una struttura dedicata ad attività di formazione e studio situata sulle rive del fiume Havel. Ascoltando il discorso di Berthold Huber, stimato e popolare presidente di IGMetall, ci furono finalmente chiare le ragioni alla base dell’invito rivolto alla CGIL e ad altre importanti confederazioni dei principali paesi europei. Huber spiegò in maniera diretta, senza particolari concessioni al sindacalese e agli artifici retorici, che per il mondo del lavoro in Germania era arrivato il momento di decisioni importanti. La più importante avrebbe dovuto riguardare il salario minimo, istituto non presente nel sistema contrattuale tedesco e da sempre fieramente avversato dal DGB e dalle sue federazioni. La conferenza di Berlino, nelle sue conclusioni, in sostanza operava il ribaltamento delle posizioni storicamente definite dal sindacato tedesco sul salario minimo e rompeva il fronte dei sindacati contrari alla sua introduzione nei rispettivi sistemi nazionali. Un fronte anti salario minimo che fino a quel momento divideva idealmente l’Europa in due, tracciando una linea immaginaria dal nord dei quattro paesi della Scandinavia al centro e al sud, passando per la Germania e l’Italia, fino a raggiungere Cipro nel cuore del Mediterraneo.
Berthold Huber chiese, a nome degli oltre due milioni di iscritti al più importante sindacato industriale tedesco – e dunque europeo – , l’istituzione di un salario minimo orario per gli addetti nei settori della metallurgia, del tessile, della chimica, dell’ICT. E propose che lo stesso salario orario minimo fosse non inferiore a 8,50 euro. La conferenza approvò questa richiesta. Il 22 settembre 2013 si tennero in Germania le elezioni politiche. La cancelliera Angela Merkel vinse ancora ma, a causa del mancato ingresso in parlamento dei liberali del partito FDP, fu costretta a dar vita ad un governo di grande coalizione con i socialdemocratici del partito SPD. Tra i punti centrali del programma del governo Merkel III trovò posto l’istituzione del salario minimo, definito nel valore di 8,50 euro l’ora.
Cosa determinò allora il cambio radicale di atteggiamento del sindacato tedesco sul salario minimo? Credo che la risposta si debba ricercare negli effetti del piano Hartz sul mercato del lavoro e sul sistema contrattuale in Germania, effetti determinati dopo l’entrata in vigore delle riforme volute dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder e trasformate in legge tra il 2003 e il 2005. Quelle riforme avevano come obiettivo la riduzione della disoccupazione attraverso la generale ridefinizione del mercato del lavoro e dei servizi per l’impiego. In effetti, l’attuazione delle quattro fasi del piano Hartz ha prodotto cambiamenti rilevanti nel sistema dei sussidi sociali e delle indennità di disoccupazione, insieme alla riduzione di vincoli e causali per il lavoro temporaneo e il ricorso all’apprendistato, all’introduzione di nuove tipologie contrattuali quali i mini-job, all’allargamento delle previsioni sulla derogabilità concordata dei contratti collettivi.
Per dirla in estrema sintesi, il sindacato tedesco aveva dovuto prendere atto che nel breve volgere di dieci anni era fortemente aumentato il numero di imprese che avevano definito fuoriuscite concordate dalle associazioni imprenditoriali e, dunque, dall’obbligo di applicazione dei contratti. Non solo, era anche arrivato a cifre elevatissime (tra i nove e gli undici milioni) il numero di lavoratori impegnati nei mini-job, una formula assolutamente conveniente per le imprese vista l’esiguità del compenso e il bassissimo costo degli oneri assicurativi e previdenziali, buona parte di quali messi a carico delle casse statali. Insomma, con una metafora più volte riecheggiata nella conferenza di IGMetall, “il lavoro cattivo stava mangiando il lavoro buono”. E, con esso, il sistema delle protezioni sociali e il sindacato.
Il ricordo della conferenza di Berlino è riaffiorato in questi giorni, nei quali si discute delle proposte volte ad introdurre il salario minimo anche nel nostro ordinamento. Ora, è chiaro che ogni paese ha le proprie peculiarità e un sistema contrattuale che risponde alla pratica negoziale e alle relazioni tra le parti sociali tipiche di ogni realtà nazionale. Non c’è in Europa, questo è il punto, un unico modello che si possa prendere come riferimento per tutti. L’Italia ha costruito un sistema basato su un doppio livello: il contratto nazionale, nel quale vengono definiti i minimi salariali (e non il salario minimo, che è cosa diversa) e il contratto aziendale o territoriale, nel quale si definiscono premi di risultato o trattamenti salariali aggiuntivi per area o settore. Nel dibattito europeo sui sistemi di contrattazione, il nostro paese viene annoverato tra quelli in cui è più alta la copertura contrattuale per i lavoratori dipendenti. In teoria, non vi sono aree del lavoro subordinato sprovviste di un contratto nazionale di settore e, dunque, di un salario contrattato di riferimento. Le difficoltà crescenti con cui ci stiamo misurando nel nostro paese derivano dal fatto che non vi sono certezze giuridiche sulla validità erga omnes dei contratti, oltre che sui caratteri di rappresentatività e di spessore numerico delle organizzazioni firmatarie dei contratti. A ciò vanno aggiunte le maglie sempre più larghe della derogabilità dei contratti nazionali che gli interventi legislativi hanno prodotto negli ultimi anni. Se vi fosse la volontà del legislatore e dei partner sociali di sancire per legge il valore giuridico dei contratti firmati da organizzazioni di cui sia chiara e accertata la capacità di rappresentare il lavoro e le imprese, di negoziare e di firmare accordi collettivi, buona parte dei problemi e delle difficoltà italiane troverebbero adeguata soluzione. E si potrebbe, in questo auspicabile scenario, definire un salario minimo per quelle tipologie di rapporti di lavoro non ricomprese nelle previsioni della contrattazione collettiva. Se questo scenario non si realizzasse, ritengo che sarebbe comunque necessario che il sindacato italiano metta a punto una propria strategia e delle proposte rispetto alla discussione sul salario minimo. Le ragioni per riflettere e, se necessario, adeguare le posizioni sindacali alla realtà del momento non mancano. Né manca, mi pare, la consapevolezza che non si possa aspettare passivamente che su un tema così sensibile e delicato la maggioranza politica del momento e il governo si muovano per proprio conto e decidano in solitudine, senza e contro le rappresentanze del mondo del lavoro.
Fausto Durante