C’è un momento in cui parlare di “declino dell’impero americano” diventa qualcosa di più del titolo di un vecchio film che raccontava tutt’altro? Quel momento arriva se gli sconquassi dell’era Trump finiscono, involontariamente, per mettere in discussione una leva fondamentale della superpotenza americana, così fondamentale da essere diventata pervasiva al punto che uno non ci pensa neanche. Questa leva è l’egemonia globale del dollaro: senza dollari, nel mondo non si arriva da nessuna parte, o quasi. E, allora, l’epoca del biglietto verde sta per finire? No. Ma potrebbe essere arrivata al capolinea l’epoca del dollaro come moneta unica ed universale e la fine di quello che il presidente francese Giscard d’Estaing definiva “l’esorbitante privilegio” degli americani sarebbe un’onda lunga e destinata ad arrivare lontano. Per esempio, fino ai nostri Btp. Cambiando anche, nel percorso, immagine e ruolo mondiale dell’Europa.
Oggi, il 60 per cento delle riserve delle banche centrali è in dollari, oltre l’80 per cento transazioni commerciali e finanziarie internazionali avviene in dollari e 4 mila miliardi di dollari in titoli del Tesoro Usa vengono utilizzati, ogni giorno, come pegno in operazioni finanziarie di ogni tipo. Siccome tutti, dunque, hanno bisogno di dollari, tutti vanno in America a procurarsi valuta e titoli in dollari. Il risultato di tanta domanda è che il tasso di interesse che il Tesoro americano deve pagare per finanziare il debito pubblico è più basso di quanto sarebbe per un altro paese. È l’”esorbitante privilegio” di Giscard d’Estaing: gli Usa hanno un debito pari al 120 per cento del Pil, ma pagano interessi come se fosse venti punti più basso, il 100 per cento del Pil.
I tempestosi primi 120 giorni di Trump hanno cambiato questa fortunata costellazione. Le guerre commerciali fanno temere inflazione e recessione, i tagli alle tasse fanno esplodere il debito pubblico, finanche le agenzie di rating non ritengono più il debito
Usa al di sopra di ogni sospetto. Il risultato è una lenta ma costante emorragia di fondi: i piccoli risparmiatori tengono su la Borsa, ma i grandi investitori si liberano di dollari e di titoli del Tesoro.
Dove vanno? Per lo più in Europa, il candidato più solido e credibile. Ora, catturare permanentemente, con l’euro, anche solo una quota del mercato mondiale oggi in dollari significherebbe mettere le mani su almeno un pezzo di quell’”esorbitante privilegio” e guadagnare ai paesi europei tassi di interesse più bassi. Come fare? Imponendo anche solo di pagare in euro le ingenti fatture per petrolio e gas, che sono le nostre maggiori importazioni, ad esempio. Ma, soprattutto, offrendo alla grande finanza internazionale, mercato e occasioni non troppo lontane da quelle americane.
Qui viene il difficile. Se vuoi che nella tua piscina girino tonni, balene e pescecani, deve essere grande, profonda e deve avere tanta acqua. E in Europa, invece, ci sono tante piccole piscine e poca acqua. Fra i tanti ostacoli all’affermazione mondiale di un mercato europeo (al di là della frammentazione legislativa e regolamentare) il più ovvio sono il suo spessore e la sua liquidità: devono esserci tanti titoli sicuri e devono essere facili da smerciare immediatamente. Ne siamo lontani: ci avviamo ad avere un bacino di mille miliardi di euro di titoli con l’etichetta Ue e qualche rivolo in più di paesi con il rating immacolato ma (purtroppo) pochi debiti. Il bacino dei titoli del Tesoro americano è trenta volte più grande.
Questa strettoia sta diventando la carta più importante a favore di uno strumento vagheggiato o osteggiato, a seconda della sponda d’Europa da cui si guarda, ma di fatto quasi inesistente: gli eurobond. L’occasione creata per l’euro dal declino americano sta facendo emergere proposte che girano intorno all’impensabile. Se non ci sono abbastanza eurobond, creiamoli. Prima è stata la capoeconomista di una grande banca olandese, la Ing, Marieke Blom, a proporre di convertire in eurobond il 10 per cento dei titoli di nuova emissione dei vari paesi europei. Ora arriva un accademico autorevole come Olivier Blanchard, ex capo economista del Fmi: emettere eurobond in una misura pari al 25 per cento del Pil europeo. Ovvero per circa 5 mila miliardi che, aggiunti ai mille miliardi già esistenti, farebbe un bacino di 6 mila miliardi di euro, che è già interessante per la grande finanza internazionale. Per avere il rating necessario, i titoli sarebbero europei, ma, chiarisce la proposta, per evitare la resistenza dei paesi più ostili al debito, ogni governo sarebbe responsabile per la sua quota (4-500 miliardi di euro per l’Italia), assicurandone il pagamento con un vincolo di legge su una quantità corrispondente di introiti dell’Iva.
Il risultato complessivo sarebbe più ampio dell’affermazione internazionale dell’euro. I nuovi titoli metterebbero a disposizione soldi che oggi non ci sono e non sono le materie cruciali che giustificano l’emissione di eurobond, invece, a mancare: dalle spese per la difesa a quelle per l’ambiente. E l’Europa si ritroverebbe un nuovo strumento permanente di investimento e rilancio. Più (a proposito di esorbitante privilegio) tassi d’interesse più bassi per tutti, Italia in testa.
Maurizio Ricci