di Ester Dini, ricercatore Censis
Nel clima di rassegnata attesa per una ripresa che appare sempre più lontana, il sommerso ritorna prepotentemente al centro del dibattito, catalizzando le attese di quanti aspettano, da quello che è stato il motore invisibile dello sviluppo, lo scuotimento del sistema, e le paure di chi, nel torpore collettivo che attanaglia il Paese, annusa il rischio di dispersione delle ultimissime energie rimaste.
Certo è che, nell’ambiguo e complesso legame che intercorre tra economia formale ed informale, i due anni lasciati alle spalle hanno segnato un passaggio di fase importante per il sommerso italiano, che si è trovato a confrontarsi con un contesto nuovo e soprattutto in rapida trasformazione, segnato, da un lato, da una netta accelerazione di quei processi di lunga deriva che già da tempo si intravedevano sottotraccia – terziarizzazione ed etnicizzazione del sommerso -, dall’altro dall’emergenza di nuove fenomenologie che hanno trovato nella difficile congiuntura che i dati ufficiali disegnano come una delle più critiche dell’ultimo decennio, un terreno fertile di crescita.
Il ciclo di lunga deriva che sta per chiudersi è quello legato alla terziarizzazione del sommerso, che ha visto progressivamente trasmigrare l’irregolarità – d’impresa e di lavoro – dall’industria al terziario, ridefinendo le stesse forme di manifestazione del fenomeno, che hanno teso ad assumere i tratti tipici del terziario, adeguandosi a quelle logiche di outsourcing, flessibilità e individualità che l’economia post-fordista si porta dietro.
In quest’ottica, non stupisce quindi che l’immagine che emerge dall’indagine condotta dal Censis nel 2005 presso un campione di 474 testimoni locali individuati tra le principali organizzazioni di rappresentanza sindacale e datoriale e le istituzioni competenti in materia (Servizi per l’impiego, Inail, Inps, Ccia) è quella di un sommerso che:
Ø riveste un ruolo sempre meno centrale nello sviluppo del nostro sistema produttivo e che ha teso negli ultimi anni a presentarsi come una realtà meno strutturata e sempre più legata a fenomeni di stagionalità. Negli ultimi sette anni la quota di testimoni privilegiati che considerano il sommerso una realtà molto diffusa e strutturale nell’economia locale è passata dal 64,2% del 1998 al 52,9% del 2002 fino al 43,5% del 2005, mentre è cresciuta parallelamente quella di chi giudica il fenomeno ciclico e legato a settori caratterizzati da elevata stagionalità, passata dallo 0,7% del 1998 al 13,1% del 2002 al 24,4% del 2005;
Ø tende a concentrarsi prevalentemente nei servizi, non solo in quelli a basso valore aggiunto (nei servizi domestici e di assistenza alla persona si stima che siano occupati in nero 37 lavoratori su 100) o tradizionalmente ad alta intensità di irregolarità, come bar e ristoranti (22,3%), i piccoli esercizi commerciali (17,4%), agriturismi e campeggi (17,3%), ma anche in quelli a più alto contenuto professionale, che hanno peraltro registrato un notevole incremento occupazionale nell’ultimo triennio: intermediazione immobiliare (12,4%), servizi di consulenza alle imprese (9,5%), servizi informatici (8,8%) e intermediazione finanziaria (8,8%);
Ø si presenta sotto forma di evasione diffusa e di irregolarità di lavoro, legata in particolare modo all’utilizzo improprio degli strumenti di flessibilità: evasione contributiva, evasione fiscale da parte dei commercianti e delle imprese, fuori busta e doppie buste paga, utilizzo improprio dei contratti a progetto, sono infatti, dopo il lavoro irregolare prestato dagli immigrati, i fenomeni di irregolarità, a detta dei testimoni locali, più diffusi nel Paese.
L’altro potente vettore di trasformazione del sommerso, di carattere più sociale e di medio periodo, è stato nell’ultimo decennio l’incremento dei flussi migratori nel Paese, che hanno prodotto una sorta di ricambio antropologico del sommerso stesso. Un fenomeno che nemmeno gli ultimi provvedimenti di legge, pure salutati positivamente all’indomani della regolarizzazione/emersione di oltre 700mila clandestini, sembrano in grado di frenare se solo si considera che, stando alle stime emerse dall’indagine Censis ben il 36,7% degli immigrati, sia clandestini che regolari, occupati in Italia lavorerebbe in nero e quasi la metà dei testimoni locali (47,8%, ma al Nord Est il dato sale al 62,3%), pensa che proprio l’insufficienza delle previsioni contenute nel Decreto Flussi (che indica in 30mila il numero di lavoratori immigrati che l’Italia intende ospitare nell’anno) rispetto al reale fabbisogno delle aziende (stimato dall’Indagine Excelsior in 165mila unità) rappresenti uno dei principali fattori di crescita del lavoro irregolare nel Paese.
In questo quadro, la difficile congiuntura in cui si è incagliato il sistema Italia da due anni a questa parte ha costituito un ulteriore forte vettore di trasformazione, accelerando ancora di più i processi di lungo corso e lasciando emergere nuove fenomenologie.
La crisi dei comparti tradizionali del manifatturiero, e in particolare quelli legati al made in Italy, le delocalizzazioni verso Paesi a basso costo, che specie al Nord Est e lungo la dorsale adriatica hanno inciso profondamente sul tessuto produttivo, unitamente alla cattiva congiuntura internazionale, hanno infatti messo a dura prova l’impresa italiana, e in particolare tutto quel sottobosco di imprese contoterziste, cresciute e alimentatesi per anni all’ombra dell’irregolarità. Il calo delle commesse ha di fatto operato una sorta di selezione naturale, da un lato espellendo dal mercato quel segmento di imprese sommerse marginali, incapaci di sostenere, anche a costi ridotti, l’accresciuta competitività internazionale, come testimoniato dalla riduzione significativa della quota di imprese totalmente sommerse, passate nell’arco di soli tre anni dal 22,3% al 9,7%, dall’altro consolidando, sia a livello dimensionale che di mercato, quella piccola fetta di imprenditoria totalmente sommersa (il 9,7% delle imprese italiane) che è in parte uscita dal nanismo.
Si tratta di un fenomeno che non può non essere messo in collegamento con la crescita di tutta un’area di imprenditoria etnica sommersa, che sta ripercorrendo un ciclo di vita per molti versi simile a quello che caratterizzò lo sviluppo dei distretti industriali italiani negli anni Sessanta, caratterizzata da un’evidente concorrenzialità dei costi di lavoro rispetto alle stesse imprese sommerse italiane, e da livelli di produttività ben più elevati, che sarebbero del resto alla base dello stesso consolidamento strutturale.
Ma la cattiva congiuntura ha spinto evidentemente ad intervenire su tutti quei fattori di contenimento dei costi di produzione, primo fra tutti il costo del lavoro, che hanno rappresentato nell’immediato uno dei principali strumenti di difesa degli imprenditori. Infatti ha continuato a crescere tutto quell’alone di lavoro grigio, al confine tra la regolarità e l’irregolarità, fatto di un uso improprio del lavoro flessibile, e in particolare delle collaborazioni a progetto, e si sono consolidati ulteriormente quei fenomeni di micro evasione diffusa, in particolare modo quella contributiva (indicata in crescita dal 48,5% del campione) e l’evasione d’impresa (46,4%).
A farne le spese, è stata evidentemente la qualità del lavoro italiano: l’insieme dei fenomeni descritti, da quelli di lungo corso, a quelli di carattere congiunturale, hanno infatti prodotto un incremento dei livelli complessivi di irregolarità del lavoro. Il lavoro totalmente irregolare è infatti passato dal 26% del 2002 al 27,9% del 2005 e l’incidenza dei lavoratori assunti regolarmente presso imprese emerse, ma con trattamenti effettivi difformi (utilizzo improprio strumenti di flessibilità, fuoribusta, ..), dal 21,3% al 22,5%.