I referendum voluti dalla Cgil hanno avuto un risultato positivo, si è tornati a parlare di lavoro. In un paese in cui di questo argomento si erano perse le tracce. Grazie all’azione del sindacato di Maurizio Landini per più di un mese di lavoro si è parlato in tutti i modi possibili. Non è durato molto, perché l’intervento massiccio dei partiti e della politica ha presto dirottato l’attenzione, ma almeno per un po’ di tempo di questo si è parlato. Forse è stato il solo effetto positivo di questa complessa iniziativa, perché in realtà abbiamo assistito a un fallimento pressoché generale. Il quorum non è stato raggiunto, e tutto è risultato inutile. E non ci si è nemmeno avvicinati all’obiettivo della maggioranza dei votanti, perché il risultato raggiunto, quel povero 30,2%, era in realtà il minimo per evitare il peggio.
Soprattutto da questa prova elettorale è uscito a pezzi lo strumento del referendum. È emerso con grande chiarezza che in queste condizioni, con questo generalizzato disamore per le elezioni tornare a un nuovo referendum sarebbe inutile. Se normalmente va a votare la metà degli aventi diritto, pensare di raggiungere il quorum in presenza di una contraddizione tra due diverse posizioni è quanto meno inutile. Adesso si sta pensando di cambiare le regole, di aggiustarle, ma è molto difficile che si possa arrivare a un vero cambiamento. Perché si tratterebbe di modificare una norma della Costituzione, impresa sempre molto complessa, e perché in fin dei conti i partiti politici vedono di malocchio uno strumento in pratica concorrente della politica stessa. La cosa più possibile è che alla fine non se ne faccia nulla. E non è un caso se già le diverse proposte avanzate sono molto distanti tra loro.
Ciò detto è utile capire quale panorama lasci sul campo questa prova referendaria. La prima cosa da rilevare è che la Cgil ne esce rafforzata. Al di là del non raggiungimento del quorum, sul quale nessuno in questa confederazione aveva mai nemmeno sperato, i 14 milioni di persone che sono andati a votare e i 12 milioni di persone che hanno votato a favore rappresentano un risultato di tutto rispetto e non è un caso se Landini nella conferenza stampa a urne chiuse lo abbia detto con grande forza, affermando che la confederazione deve partire da questo dato per ripartire nella sua azione. Il punto è che questa forza, per quanto rilevante, non è in grado di portare risultati consistenti, di valore.
Innanzitutto, perché il sindacato nel suo insieme è debole, per svariate ragioni. La prima è che in questa evenienza ha permesso alla politica di prendersi la scena, svilendo così le ragioni di merito che avevano portato ai referendum. È lo stesso esito che si ebbe nel 1985 dopo il referendum sulla scala mobile, che fu vinto dalla Cisl al di là di qualsiasi dubbio, ma che lasciò tutto il sindacato in una situazione di diffusa debolezza, per uscire dalla quale servirono parecchi anni. La seconda, rilevante, è che il sindacato è profondamente diviso e questa esperienza referendaria lo ha diviso ancora di più.
La Cgil ha agito sostanzialmente da sola. La Uil ha appoggiato molto tiepidamente l’iniziativa, la Cisl la ha combattuta. Poteva andare anche peggio, ma il giudizio negativo dei cislini in tutto il periodo referendario è stato molto duro. E meno male che Daniela Fumarola, la segretaria generale della Cisl, non ha inasprito il giudizio finale, limitandosi ad affermare che non era questo lo strumento più utile, e chiedendo di avvicinare le forze in vista delle battaglie del futuro.
Per uscire da questa situazione di debolezza, estremamente pericolosa, il sindacato deve fare adesso due cose. La prima è ritrovare un po’ di unità. Potrebbe essere meno difficile di quanto non si possa credere oggi. Dieci anni fa Cgil, Cisl e Uil seppero trovare la via per eliminare le loro differenze, sgombrando la via dai macigni che le avevano allontanate. Riuscirono a mettere assieme delle regole per calcolare la rappresentatività di ogni organizzazione e consentire una contrattazione ordinata. Non era facile, ma ci riuscirono e questo consentì di arrivare a una serie di patti con le più diverse rappresentanze imprenditoriali fino al Patto della fabbrica del 2018. Quanto meno potrebbero provare a ritrovare quel sentiero di unità. E in questo modo riprendere il cammino unitario.
La seconda, conseguenziale con la prima, è arrivare a un accordo con Confindustria. Anche questo risultato potrebbe non essere così difficile come potrebbe sembrare. Emanuele Orsini, il presidente degli industriali, ha manifestato precisi orientamenti in tal senso e un incontro è già in calendario per il 26 giugno. Ma è chiaro che a questo appuntamento le tre confederazioni operaie devono arrivare quanto meno con la volontà di cercare per quanto possono un accordo, prima tra loro e poi con la parte datoriale. Dopo il Patto della fabbrica tutti sapevano che quell’accordo era molto interessante, ma doveva essere applicato, spiegato, incrementato. Gli industriali ci provarono, con tutte le loro forze, dal sindacato non ebbero mai una risposta incoraggiante. Adesso forse è il momento di riprovarci e arrivare a un nuovo grande accordo. Difficile? Basta provarci.
Massimo Mascini