di Manuel Marocco – ricercatore ISFOL*
1. L’idea di mettere a frutto l’abilità “collocativa” delle cd. agenzie di lavoro interinale, per contrastare efficacemente la disoccupazione di lunga durata, trova riscontri non solo nelle riforme più recenti degli ordinamenti di altri paesi, ma anche in quello italiano, dove erano state introdotte, a più riprese, misure ritagliate su categorie specifiche di lavoratori. Tramite incentivi diretti a tali operatori, “premiati” economicamente e/o normativamente, ovvero mediante la promozione di appositi accordi tra questi ultimi e soggetti pubblici (cd. contracting out), il Legislatore contava di stimolare l’attenzione del mercato su soggetti economicamente poco “appetibili”, perché più difficili da ricollocare al suo interno. Aderendo alla indicazione comunitaria di promuovere l’occupabilità dei lavoratori attraverso politiche preventive, veniva così valorizzato il lavoro temporaneo, quale strumento di politica attiva.
In proposito, va menzionata innanzi tutto la l. n. 196/1997 (cd. Pacchetto Treu), la quale ha disciplinato, per la prima volta, il lavoro interinale nel nostro paese. Questa prevedeva uno strumento rivolto al reinserimento dei soli lavoratori titolari di indennità di mobilità (art. 8), attraverso tre particolari forme di incentivazione: due rivolte direttamente alle parti del contratto per prestazioni di lavoro temporaneo ed una mediata attraverso il coinvolgimento dell’operatore pubblico[i]. Un’altra categoria di lavoratori svantaggiati, nei confronti della quale si sperimentò l’utilizzazione del lavoro temporaneo come misura di politica attiva, fu quella dei lavoratori socialmente utili (LSU). Con il decreto interministeriale 21 maggio 1998 venne individuata, tra le c.d vie d’uscita dal bacino dei LSU, l’incentivazione, economica e normativa, della loro presa in carico da parte delle agenzie di fornitura (art. 7).
Le misure appena ricordate, in primo luogo, erano contraddistinte da un assai selettivo campo di applicazione soggettivo, risolvendosi in strumenti rivolti a specifiche categorie di lavoratori “in difficoltà” – i lavoratori titolari di indennità in mobilità e quelli adibiti a lavori socialmente utili. Si trattava comunque di un gruppo di soggetti eleggibili assai rilevante da punto di vista quantitativo, beneficiari di misure assistenziali di protezione del reddito, originariamente temporanee che, a causa di periodiche proroghe, avevano generato rilevanti fenomeni di disoccupazione di lunga durata; in taluni casi vere e proprie emergenze sociali, si pensi in particolare agli LSU. Pertanto, pressanti esigenze, anche di riduzione della spesa pubblica, inducevano alla predisposizione di ulteriori strumenti, anche innovativi come il lavoro temporaneo, nel tentativo di affrontare tali fenomeni con più efficienti, e meno dispendiose, politiche attive del lavoro, piuttosto che con prolungate ed inefficaci politiche passive. In secondo luogo, l’incentivazione, in particolare economica, alla “presa in carico” di tali soggetti ad opera delle agenzie di lavoro interinale, era comunque condizionata alla loro assunzione a tempo indeterminato: l’ordinamento privilegiava, a fronte dell’incentivo statale, l’interesse del lavoratore alla stabilità dell’impiego e quindi richiedeva un congruo impegno da parte degli operatori privati nella predisposizioni di idonee misure di reinserimento del mercato del lavoro, contando peraltro sul fatto che gli stessi si sarebbero comunque attivati per l’assunzione “diretta” da parte delle imprese utilizzatrici, comunque privilegiata dall’ordinamento giuridico[ii].
2. Il d.lgs. 276/2003 (d’ora in poi Decreto), lungo la scia degli interventi descritti al paragrafo precedente, seppur con alcune variazioni, determina in via sperimentale[iii] la cornice normativa di un modello di “cooperazione pubblico-privato”, anch’esso qualificato dal coinvolgimento delle agenzie di lavoro interinale (ora di “somministrazione”) nella gestione di politiche attive a favore di lavoratori svantaggiati. Nel frattempo è intervenuta la prassi a dettare le prime indicazioni operative in materia (Circolare 41/2004).
Anche il modello da ultimo proposto si fonda su di un regime premiale a favore delle agenzie, sempre sotto forma di abbassamento del costo del lavoro, ma con due rilevanti novità. Innanzi tutto lo strumento, sotto il profilo del campo di applicazione soggettivo, da, per così dire, “categoriale”, quale era nel regime previgente, assume nuova veste e diviene “settoriale”, tramite il riferimento alla generale nozione di “lavoratore svantaggiato”, così come fissata nel Reg. n. 2204/2002 della Commissione Europea in materia di incentivi economici all’occupazione e nella l. 381/91, contenente la disciplina delle cooperative sociali. La normativa comunitaria definisce tale: “Qualsiasi persona appartenente ad una categoria che abbia difficoltà ad entrare, senza assistenza, nel mercato del lavoro”, provvedendo poi ad identificare tali categorie[iv].
Appare palese la trasformazione così impressa all’istituto che, da strumento “tampone” dedicato a circoscritte categorie soggettive particolarmente deboli sul mercato del lavoro, sebbene – o perché – destinatarie di un regime privilegiato di aiuto al reingresso sullo stesso mercato, diviene mezzo assai duttile, potenzialmente caratterizzato da un ampio campo di applicazione.
Un’altra novità è rappresentata dall’intervento sul sistema delle convenienze delle agenzie, anche sotto il profilo della durata del contratto di lavoro tra lavoratore svantaggiato e la stessa agenzia necessaria per accedere al regime premiale. Difatti, non costituisce più conditio sine qua non per beneficiare di entrambi gli incentivi previsti dal Decreto, di cui si dirà più oltre, l’assunzione a tempo indeterminato del lavoratore. Sulla base della nuova disciplina risulta ora invece richiesta una durata minima dello stesso contratto di lavoro, durata peraltro diversificata, a seconda della tipologia di incentivo. Il Legislatore cioè, considerando le performance del lavoro interinale ed in particolare il dato relativo alla brevità della durata media delle missioni presso le aziende utilizzatrici[v], è intervenuto per superare un elemento del regime di premialità precedentemente vigente – la necessaria stabilità dell’impiego – potenzialmente in conflitto con l’esigenza di promuovere comunque l’inserimento/reinserimento dei lavoratori svantaggiati.
È il caso di soffermarsi sul peculiare meccanismo di “entrata a regime” dello stesso, sebbene su quest’ultimo potrebbe “pesare” la recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 50/2005[vi]. Allo stato attuale, l’implementazione concreta di tale modello attende “le norme regionali che disciplinino la materia”. Tuttavia, sino all’entrata in vigore di tale disciplina, esso potrà essere sin da subito sperimentato “in presenza di una convenzione tra una o più agenzie autorizzate alla somministrazione del lavoro (…) e i Comuni, le Province o le Regioni stesse”. Pertanto, pur rimanendo ammissibili sperimentazioni su base locale – che in effetti si sono riscontrate nella pratica[vii] – la disciplina che verrà analizzata di seguito vale solo a definire “principi fondamentali”, i quali dovranno essere specificati nell’ambito di apposite discipline emanate dalle Regioni, nell’esercizio della potestà legislativa concorrente loro riconosciuta in materia.
Inoltre, il regime di convenienze che verrà descritto di seguito – sebbene nel testo definitivo del Decreto sia venuto meno la denominazione di “agenzie sociali per il lavoro” – vale anche a favore di “appositi soggetti giuridici costituiti ai sensi delle normative regionali”, in convezione con le agenzie di somministrazione autorizzate e accreditate. Pertanto, mentre sperimentazioni potranno essere immediatamente avviate sulla base delle convenzioni con gli enti locali sopra ricordati, la costituzione delle agenzie sociali appare completamente affidata alla autonomia delle Regioni, le quali dovranno decidere l’effettiva operatività di tali organismi.
In effetti, quattro enti locali – Campania, Emilia-Romagna, Marche e Toscana – hanno predisposto atti legislativi, nell’ambito dei quali, tra l’altro, ricorre una prima regolamentazione dell’istituto (vedi infra). Peraltro, mentre nelle prime due Regioni, al momento di cui si scrive, si tratta di disegni di legge ancora in corso di discussione[viii], presso le altre due sono stati adottati appositi strumenti normativi.
3. La riforma prevede due forme di beneficio a favore delle imprese di somministrazione, diversamente caratterizzate a seconda dei soggetti destinatari.
In primo luogo, è disposto un generale incentivo, applicabile cioè in caso di assunzione di tutti coloro che rientrano nella nozione di lavoratore svantaggiato, di carattere misto, vale a dire sia economico che normativo. Esso consiste nella facoltà attribuita alle stesse agenzie di agire in deroga al principio della parità di trattamento, a mente del quale: “I lavoratori dipendenti dal somministratore hanno diritto a un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore, a parità di mansioni svolte”. Proprio le finalità promozionali sottese all’intervento giustificano sul piano costituzionale, ma anche in prospettiva su quello del diritto comunitario[ix], la disparità di trattamento tra lavoratore svantaggiato e quello dell’utilizzatore, essendo ammissibili differenziazioni sulla base del criterio di ragionevolezza.
Pur avendo la norma ampio respiro, risultando ammissibili anche “discriminazioni” normative, essa finisce per agire, innanzi tutto – e nelle prime applicazioni – sul piano delle convenienze economiche sia della agenzia privata sia dell’impresa utilizzatrice. È difatti consentito alla prima di retribuire i lavoratori coinvolti in misura inferiore rispetto ai minimi previsti dalla contrattazione collettiva applicata dall’azienda utilizzatrice e, corrispettivamente, a quest’ultima di rimborsare l’agenzia solo per quanto da essa “effettivamente” speso per gli oneri retributivi e previdenziali. In proposito la prassi, in assenza di precise indicazioni legislative, ha ribadito che limite implicito invalicabile è comunque il principio della retribuzione “proporzionata e sufficiente” di cui all’art. 36 Cost., pur essendo ammissibile, e auspicabile l’intervento delle parti sociali, ovvero della disciplina regionale, al fine di fissare tetti retributivi minimi in materia. Peraltro, tale deroga alla ordinaria disciplina in materia di somministrazione di manodopera è giustificata solo ove ricorrano quattro presupposti stabiliti dalla legge e vale a dire: sia stipulato “un piano individuale di inserimento o reinserimento nel mercato del lavoro”; siano previsti “interventi formativi idonei”; sia coinvolto un “tutore con adeguate competenze e professionalità”; l’agenzia provveda ad assumere il lavoratore “con contratto di durata non inferiore a sei mesi”.
Sono così fissati elementi oggettivi intesi a sostanziare ed esplicitare l’impegno richiesto alla agenzia per migliorare l’occupabilità del soggetto svantaggiato. In altre parole, questa, oltre a stipulare un contratto di lavoro con le caratteristiche temporali appena ricordate – la cd. presa in carico – dovrà innanzi tutto personalizzare il proprio intervento, tramite gli strumenti imposti dalla legge.
A ciò è intesa la stipula di un apposito ed “individuale” piano di inserimento e reinserimento, tarato sui bisogni e sulle caratteristiche del soggetto preso in carico. Sulla base delle informazioni raccolte, dovranno essere costruiti – e poi valutati – gli “idonei” interventi formativi richiesti[x], affiancando al lavoratore un tutor, adeguato per competenza e professionalità.
La seconda tipologia di incentivo, di carattere economico, è dedicata esclusivamente ad una particolare species di soggetti rientranti nella più generale nozione di lavoratore svantaggiato: i titolari di trattamenti previdenziali e/o assistenziali, erogati in ragione dello stato di disoccupazione o di inoccupazione.
È, difatti, previsto che, per un periodo massimo di 12 mesi, le agenzie di somministrazione, da un parte, potranno “determinare (…) il trattamento retributivo del lavoratore, detraendo dal compenso dovuto quanto eventualmente percepito dal lavoratore medesimo” dallo Stato e, dall’altra, potranno detrarre “dai contributi dovuti per l’attività lavorativa l’ammontare dei contributi figurativi”. In altre parole, mentre il lavoratore continuerà a ricevere la misura di sostegno al reddito di cui è beneficiario, l’agenzia potrà retribuire il lavoratore portando, per così dire, “in compensazione”, quanto versato dallo Stato a titolo di indennità ovvero di contribuzione figurativa. Anche in questo caso, l’impresa utilizzatrice, essendo tenuta a corrispondere al somministratore le spese da questo “effettivamente” sostenute, beneficerà dell’abbassamento del costo del lavoro così realizzato.
Unica condizione imposta alla agenzia per usufruire di tale incentivo è l’assunzione del lavoratore con contratto di lavoro subordinato di durata non inferiore ai nove mesi. Sebbene in tal caso sia richiesto una presa in carico di più lunga durata (tre mesi in più rispetto al primo degli incentivi previsti), non ricorrono quelli obblighi che, abbiamo visto, valgono ad orientare “socialmente” l’impegno dell’operatore privato a promuovere l’occupabilità del soggetto svantaggiato (piano di inserimento, interventi formativi, tutor)[xi].
Questione di rilievo, infine, è quella relativa alla possibilità di cumulare i due diversi incentivi sopra ricostruiti, ove ne ricorrano le condizioni, vale dire qualora un “lavoratore svantaggiato” sia, al contempo, beneficiario di trattamento previdenziale e/o assistenziale. Anche in questo caso, in attesa dello specifico intervento degli enti locali, la prassi ha affidato alle sperimentazioni ed alle fonti convenzionali sottoscritte in tale ambito, la decisione circa la cumulabilità o alternatività dei due diversi regimi premiali.
4. Così come nel regime previgente, anche il nuovo modello di raccordo pubblico-privato prevede un apposito apparato sanzionatorio, ispirato da un approccio alle politiche di sostegno al reddito detto welfare to work, da cui la contrazione workfare, espressione, peraltro, esplicitamente richiamata nell’incipit dell’art. 13 più volte richiamato. A sostegno di questa impostazione, oltre ad esigenze di contenimento della spesa pubblica, assume un ruolo primario l’insieme di critiche mosse all’elargizione di sussidi alla disoccupazione, fra le quali il presunto effetto disincentivante alla ricerca di un nuovo lavoro e alla riqualificazione professionale. Pertanto, una delle tendenze più recenti di riforma di tali sistemi di protezione adottati a livello internazionale, hanno riguardato, da una parte, “l’inasprimento della cosiddetta condizionalità, ossia delle condizioni che devono essere soddisfatte dal beneficiario per percepire (e/o continuare a percepire) la prestazione” e, dall’altra, “la manipolazione delle formule di prestazione e della condizionalità in modo da incentivare la partecipazione lavorativa (“make work pay”), anche in collegamento con le politiche attive e le altre politiche sociali”[xii].
D’altro canto, il consenso in Italia verso il cd. make work pay “è oggi generale e metabolizzato”[xiii], come dimostrato dalla presenza nell’ordinamento giuridico di norme che condizionano la fruizione dei sussidi alla partecipazione ad attività formative, od alla disponibilità al lavoro, pur trovando poi scarsa applicazione concreta nella pratica[xiv].
Si aggiunga che, da ultimo, la riforma del collocamento – ci riferisce, da ultimo, al d.lgs. 297/2003 – tramite la interpolazione della nozione di status di disoccupazione, ha esteso l’onere di attivazione del soggetto disoccupato/inoccupato a tutte le misure pubbliche di promozione dell’occupabilità dei lavoratori, aldilà della condizione di beneficiario di un ammortizzatore sociale. Per l’acquisizione dello status non rileva più solo il mero fatto di essere privo di lavoro, ma è indispensabile dichiararsi immediatamente disponibile al lavoro e concordare, con chi eroga il servizio all’impiego, le modalità per la “ricerca di una attività lavorativa”. Cosicché, anche in questo caso, il rifiuto ingiustificato delle misure preventive proposte – tra cui è fatta rientrare anche una missione di lavoro interinale di durata minima predefinita per legge – comporta la perdita dello stato di disoccupazione.
Allo stesso modo, nell’art. 13 è stabilito che il lavoratore preso in carico decada – e non venga semplicemente sospeso, come previsto nella l. 196/97 – dalla fruizione dei “trattamenti di mobilità (…), indennità o sussidio la cui corresponsione è collegata allo stato di disoccupazione o inoccupazione”, qualora rifiuti il “progetto individuale di reinserimento”, un corso di formazione professionale, ovvero un “offerta di un lavoro inquadrato in un livello retributivo non inferiore del 20% rispetto a quello delle mansioni di provenienza”.
Come nella disciplina generale in materia di collocamento, peraltro, la legge stabilisce dei limiti all’onere di attivazione previsti in capo al lavoratore, attraverso la fissazione di standard qualitativi minimi dell’offerte formative e lavorative, idonei a determinare la soglia di esigibilità del comportamento richiesto ai soggetti coinvolti nella misura. Infatti, è precisato che: “Le attività lavorative o di formazione offerte al lavoratore devono essere congrue rispetto alle competenze e alle qualifiche del lavoratore stesso e si devono svolgere in un luogo raggiungibile in 80 minuti con mezzi pubblici da quello della sua residenza”.
Di fatto, la norma riprende, estendendola a tutti i lavoratori percettori di trattamenti previdenziali e/o assistenziali, la previgente disciplina in tema di cancellazione del lavoratore dalla lista di mobilità[xv], ricalcando gli oneri di accettazione, correttezza e comunicazione ivi previsti, sebbene sia possibile rilevare un certo inasprimento della condizionalità, in particolare sotto forma di una maggiore severità in tema di disponibilità al lavoro.
Un ulteriore differenza apprezzabile da un confronto con la disciplina del 1991, è quella che concerne la congruità dell’offerta formativa o lavorativa rispetto alle competenze e qualifiche detenute dal soggetto interessato. Sotto questo aspetto, invece, l’art. 13 sembra riecheggiare la previsione contenuta nella nuova disciplina del collocamento, più volte richiamata, in materia di stato di disoccupazione. Anche in questo caso, perché il rifiuto dell’offerta di lavoro individuata dal “servizio competente”, comporti la perdita dello status, è necessario che la stessa sia “congrua”. Così come avvenuto ai fini della definizione di quest’ultimo parametro, in mancanza di ulteriori specificazioni da parte del Legislatore nazionale, spetterà a quello regionale riempirlo di contenuto.
Novità di rilievo, infine, concerne l’individuazione del soggetto cui spetta dar avvio alla procedura sanzionatoria. La legge, difatti, dispone che: “I responsabili della attività formativa ovvero le agenzie di somministrazione di lavoro comunicano direttamente all’INPS (…) i nominativi dei soggetti che possono essere ritenuti decaduti dai trattamenti previdenziali. A seguito di detta comunicazione, l’INPS sospende cautelativamente l’erogazione del trattamento medesimo (…)”. Pertanto, sebbene permanga in capo al soggetto pubblico (l’INPS), l’irrogazione della sanzione, avverso la quale è comunque ammesso ricorso, sarà indispensabile la comunicazione dell’operatore privato (responsabile dell’attività formativa o agenzia di somministrazione) perché detto l’iter della procedura amministrativa prenda inizio.
5. Come detto, alcuni enti locali hanno approvato – ovvero sono in procinto di approvare – apposite discipline dirette a dare attuazione all’intero d.lgs. 276/2003, per la parte da quest’ultimo riservata alla potestà legislativa concorrente delle Regioni, in ossequio alla riforma costituzionale del 2001.
L l.r. Marche n. 2/2005 al fine di sostenere ed incentivare la “formazione e l’occupazione dei soggetti svantaggiati”, provvede ad affidare alla Giunta il compito di definire, annualmente, sentite le parti sociali e “tenuto conto dell’andamento del mercato del lavoro e delle condizioni economiche e sociali della Regione”, i “soggetti svantaggiati destinatarie in via prioritaria, unitamente alla categoria dei disabili, degli interventi regionali finalizzati all’inserimento ed al reinserimento lavorativo”. Ad una prima analisi del testo, appare evidente – come confermato dalla norma appena citata – il rilevante ruolo affidato al Governo regionale, con l’effetto della delegificazione di gran parte della materia.
La legge, tuttavia, precisa le condizioni oggettive in capo ai “soggetti autorizzati che intendano operare ai sensi dell’articolo 13 del d.lgs. 276/2003”. Le agenzie di somministrazione per beneficare del regime premiale previsto dalla norma nazionale dovranno: ottenere l’accreditamento dalla Regione[xvi]; stipulare una convenzione con le Province, previo parere favorevole della Regione; “assicurare integrale rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali, regionali e territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative”. Un ulteriore intervento della Giunta, con le stesse modalità viste in precedenza (annualmente e dopo aver consultato le parti sociali), è previsto in ordine alle materie lasciate in bianco dal Legislatore nazionale[xvii].
Assai simili si rivelano i due disegni di legge ancora in corso di discussione. Il Ddl dell’Emilia-Romagna, da una parte, condiziona la “vigenza” dell’art. 13 ad apposite convenzioni con le Province, dall’altra, assegna alla Giunta il compito di definire “i requisiti ed i contenuti minimi” delle stesse convezioni. L’intervento del governo regionale riguarderà, oltre a materie rispetto alle quali era la stessa elasticità della norma nazionale a richiedere un maggior dettaglio (si pensi alla definizione dei soggetti destinatari, alla congruità dell’offerta di lavoro, alle misure di accompagnamento e supporto), anche misure innovative. Ci si riferisce alla previsione di, non meglio precisati, requisiti in capo alle imprese utilizzatrici e di clausole relative alla fissazione di “tempi e modalità di stabilizzazione della condizione lavorativa”, le quali, al contrario, non trovano riscontro nella normativa statale.
Le stesse condizione minime di accesso al regime premiale (accreditamento, convezione con la Provincia, rispetto della contrattazione collettiva) e le stesse specificazioni in ordine agli obblighi “sociali” delle agenzie di somministrazione sono, infine, imposte dal Ddl campano. Infatti, ancora una volta sarà la Regione ad individuare le categorie dei soggetti svantaggiati, gli standard minimi dei piani individuali, i requisiti professionali dei tutor, le procedure di controllo.
In uno stato di maggior avanzamento si presenta, infine, l’intervento della Toscana, realizzato attraverso delle modifiche non solo al Testo Unico n. 32/2002 (“T.U. della normativa della Regione Toscana in materia di educazione, istruzione, orientamento, formazione professionale e lavoro”), ma anche al regolamento attuativo dello stesso. Nel risulta, ad un primo esame, una disciplina tendente a inserire l’istituto di cui all’art. 13, nel complessivo apparato normativo regionale in materia di incontro fra domanda e offerta di lavoro (D.p.g.r. 4 febbraio 2004, n. 7/R). Il Testo Unico, così come modificato dalla l.r. n. 5/2005, consente alle agenzie autorizzate alla somministrazione di operare ai sensi dell’art. 13 “a condizione che stipulino una convenzione con ciascuna provincia interessata”, così come, d’altra parte, previsto in tutti gli interventi sin qui commentati. È quindi affidato ad apposito regolamento regionale il compito di disciplinare “le procedure, le garanzie a tutela dei lavoratori svantaggiati (…) e i requisiti soggettivi e oggettivi per la stipula delle convenzioni”, poi in effetti approvato il 26 gennaio u.s. (Reg. r. n.1/2005).
In tale atto, viene innanzi tutto esplicitato il requisito oggettivo relativo alla stipula della Convezione con la Provincia. Spetta, difatti, alla Giunta regionale il compito di approvare, entro 30 gg, una Convenzione quadro, che dovrà specificare gli obblighi “sociali” delle agenzie, taluni di diretta derivazione dalla norma nazionale (obblighi di assunzione; piano individuale di inserimento o reinserimento; presenza del tutore), altri imposti direttamente dalla Regione (il rispetto “integrale” dei contratti “nazionali, regionali e territoriali o aziendali”; le “eventuali modalità per stabilizzare il rapporto di lavoro”). Insieme e a questo ultimo dato, peraltro qui solo eventuale, va sottolineato il fatto che, al fine del funzionamento dell’istituto, è attribuito un rilevante ruolo anche del “servizio per l’impiego” pubblico. Quest’ultimo, difatti, oltre ad essere chiamato a sottoscrivere il “piano individuale di inserimento e reinserimento”, insieme alla stessa agenzia ed il lavoratore, interviene ai fini della definizione degli interventi formativi dedicati al soggetto preso in carico. Detti interventi formativi, difatti, dovranno essere valutati e concordati col “servizio per l’impiego”, cui spetterà altresì individuare il tutor.
Sulla base di detta Convenzione quadro, quindi, le Province – sentita la Commissione provinciale tripartita, l’organo permanente per la concertazione con le parti sociali – provvedono a stipulare con le agenzie di somministrazione un apposito patto. La norma pare attribuire allo stesso organo di concertazione l’individuazione delle “categorie dei soggetti svantaggiati in conformità con le esigenze del mercato del lavoro locale”. Pertanto, non solo risulterebbe decentrata a livello provinciale l’esatta individuazione soggettiva del campo di applicazione dell’istituto, ma a tale scopo sembrerebbe previsto l’intervento necessario della concertazione con le parti sociali.
Il Regolamento, infine, posta la regola generale che: “Le offerte di lavoro proposte dall’agenzia di somministrazione devono essere compatibili con la condizione di svantaggio e con lo stato di salute del lavoratore svantaggiato”, si occupa di specificare il regime di decadenza in cui possono incorrere i lavoratori coinvolti nella misura. Sono presi in considerazione, in primo luogo, i titolari di trattamenti previdenziali/assistenziali. Il lavoratore decadrà dai trattamenti, pertanto, ove rifiuti di sottoscrivere il piano, ma anche qualora non accetti il “progetto di reinserimento nel mercato del lavoro”, ovvero il corso di formazione professionale “corrispondente” al piano sottoscritto[xviii]. Rimane che le offerte (vale a dire le attività lavorative ovvero la formazione professionale) dovranno essere congrue rispetto “alle competenze e alle qualifiche del lavoratore stesso”. Inoltre, il regolamento regionale si occupa anche di chiarire le conseguenze, ove il rifiuto venga opposto da un “lavoratore svantaggiato” non titolare di trattamenti: in questo caso – a ragione della equipollenza tra perdita del trattamento e quella dello stato di disoccupazione[xix] – ove le offerte siano “corrispondenti” al piano sottoscritto, quest’ultimo perderà, appunto, lo status di disoccupato, e, di conseguenza, il diritto di usufruire delle misure di politica attiva, per un periodo predeterminato (12 mesi).
Infine, la Regione Toscana si è occupata anche di regolare la “procedura per la dichiarazione di decadenza dallo stato di disoccupazione”, in cui vengono fatte confluire anche le ipotesi di perdita dei trattamenti di mobilità, indennità di disoccupazione e altra indennità o sussidio, per il mancato rispetto del “piano individuale di reinserimento”, a conferma della richiamata equipollenza.
Ricorre, in tale ambito, una parziale modifica rispetto alla procedura fissata dall’art. 13, descritta nel paragrafo precedente, tendente a riconfermare il ruolo esclusivo degli uffici pubblici nella gestione di quelle attività incidenti sullo stato di disoccupazione. È qui previsto, difatti, che l’agenzia di somministrazione, al verificarsi della causa di decadenza, dovrà comunicare il nominativo del lavoratore non direttamente alla sede INPS competente, ma solo al “servizio per l’impiego”, anch’esso – si ribadisce – contraente del patto sottoscritto con lo stesso lavoratore. Sarà la Provincia l’organo competente, a disporre, con atto motivato, la perdita dello status – così come d’altra parte previsto nella disciplina generale della Regione Toscana in materia di “collocamento”[xx] – ed operare le opportune comunicazioni all’INPS, nel caso in cui il lavoratore colpito dal provvedimento negativo sia titolare di trattamenti previdenziali/assistenziali.
In conclusione, può essere notato che, da una parte, nessuna Regione sembra aver inteso, almeno al momento, regolare la costituzione di “Agenzie sociali”, e che, dall’altra, non appare perfettamente decifrabile il requisito, previsto in tutti gli atti commentati, relativo al rispetto “integrale” della contrattazione collettiva, alla luce dell’incentivo normativo, stabilito a livello nazionale, relativo alla derogabilità del principio della parità di trattamento.
6. Inteso a consentire l’operatività dell’istituto, tramite l’altra via di regolazione dello stesso – quella convenzionale – è il “Protocollo d’intesa per la stipula di convezioni territoriali ex art. 13, comma 6, D.Lgs. 276/2003”, sottoscritto, in data 3/11/2004, dalle associazioni di categoria delle agenzie di somministrazione (Ailt, Apla e Confinterim), da una parte e l’agenzia tecnica del Ministero del lavoro (Italia Lavoro), dall’altra.
Sin dal primo articolo è evidenziato il carattere promozionale dell’intervento, in quanto le parti chiariscono che, oggetto della convezione, è la condivisione di “metodologia di intervento per l’attuazione dell’art. 13”, cui seguirà un attività, appunto, promozionale, diretta al recepimento dei contenuti dello stesso accordo, ogni volta in cui dovrà essere sottoscritta una convezione tra agenzie di somministrazione e Comuni, Province o Regioni. Insomma, l’obiettivo del patto è quello di fornire una griglia normativa condivisa che potrà funzionare da modello, per l’avvio delle sperimentazioni.
Sebbene, il testo si rifaccia ampiamente ai testi normativi sopra analizzati – il d.lgs. n. 276/2003 e la Circolare n. 41 – vi sono alcune indicazioni che valgono, ulteriormente, a specificare taluni aspetti della disciplina legislativa.
In primo luogo, è puntualizzato che nella nozione di lavoratori svantaggiati possono essere fatti rientrare anche i “lavoratori espulsi dall’attività lavorativa per licenziamento o per scadenza del contratto a termine o a causa mista; lavoratori che si sono dimessi per giusta causa”. Inoltre, particolarmente interessanti è quanto previsto in tema di “Misure di incentivazione”.
Sembrerebbe innanzi tutto stabilito, in tema di “requisiti minimi” per accedere al regime premiale, l’estensione ad entrambe le ipotesi di incentivo – ed in particolare a quello economico, riconosciuto in caso di presa in carico di soggetto titolare di un trattamento previdenziale/assistenziale – delle condizioni che abbiamo già definito di orientamento “sociale” dell’azione degli operatori privati coinvolti. In linea generale è affermato che, qualora si tratti di “lavoratori svantaggiati”, “la metodologia” di definizione del piano individuale dovrà prevedere tre fasi:
– la costruzione (…) del profilo sociale attraverso l’utilizzo di metodologie di rilevazione delle caratteristiche socio culturali e professionali dell’individuo;
– la costruzione del progetto individuale e professionale nonché la costruzione del percorso di inserimento o reinserimento lavorativo;
– la possibilità, per soggetti in situazioni particolarmente complesse, di integrare azioni di welfare ed azioni di workfare”.
Solo la costruzione del “profilo sociale” dell’individuo – la prima fase – non è richiesta ove la misura coinvolga percettori di benefici economici, mentre le altre fasi sembra debbano necessariamente ricorrere. Tuttavia, è comunque prevista la possibilità di applicare l’intero “percorso metodologico”, “qualora si tratti di bacini di lavoratori con situazioni di disagio particolarmente complesse e qualora siano interventi sperimentali finanziati dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e/o dalle Regioni e/o dagli enti locali”. Indicazioni ulteriori vengono fornite in materia di interventi formativi e tutor[xxi].
Con riguardo ai primi è previsto che – “in funzione dell’adeguamento delle capacità professionali del lavoratore al contesto lavorativo”– dovrà essere erogata una formazione teorica non inferiore a 16 ore, in analogia a quanto previsto in materia di contratto di inserimento, ripartita fra l’apprendimento di nozioni di prevenzione antinfortunistica, disciplina del rapporto di lavoro ed organizzazione aziendale ed accompagnata da congrue fasi di addestramento specifico.
[i] Le allora esistenti Agenzie regionali per l’impiego avevano la facoltà di sottoscrivere “convenzioni” con le stesse imprese di fornitura finalizzate al “reinserimento lavorativo” dei titolari di indennità di mobilità, tramite lo svolgimento della prestazione di lavoro temporaneo.
[ii] Si intende riferirci alla norma, ribadita anche dalla riforma – seppur derogabile in via collettiva – che dispone la nullità delle pattuizioni intese a limitare la facoltà del lavoratore di accettare detta assunzione “diretta”.
[iii] Al pari di altri istituti disciplinati dalla riforma anche l’art. 13 è espressamente definito a “carattere sperimentale”, con la conseguenza che esso dovrà essere valutato, decorso appunto il periodo di sperimentazione (aprile 2005), per disporne l’eventuale “prosecuzione” (art. 86, co. 12).
[iv] Si veda la citata Circolare n. 41.
[v] Dalle stime per il 2003 della Confinterim – www.confinterim.it – si ricava che l’85% delle missioni ha una durata inferiore ai 6 mesi.
[vi] Bocchieri, Tiraboschi M. (2005), Lavoratori svantaggiati e somministrazione di lavoro. Prime attuazioni dell’art. 13, Dlgs n. 276/2003, in “Contratti e & Contrattazione”, 3. Tali AA., infatti, affermano che, proprio in virtù della Sentenza n. 50/2005 ed in particolare all’ivi affermata competenza esclusiva dello Stato in ordine alle misure di incentivazione (retributive e previdenziali) previste dall’art. 13, l’attuale “delega” alla normativa regionale, ovvero alle “Convezioni territoriali”, potrebbe essere superata. In altre parole: “Si potrebbe ipotizzare, mediante di un apposito intervento legislativo correttivo, la diretta operatività delle misure di cui all’art. 13” (corsivo mio). In effetti, l’art. 13, 6°, del Ddl approvato il 7.3.2005, nell’ambito del cd. Pacchetto competitività, modificando sul punto l’art. 13 del d.lgs. 276/2003, non contiene più alcun rinvio alla legislazione regionale.
[vii] Sono quattro, allo stato attuale, le sperimentazioni dell’istituto: lo “Sportello Marco Biagi” del Comune di Milano, cui si aggiungono le Regioni Abruzzo, Puglia e Veneto, le quali, rispettivamente, in data 3.2.2005, 2.2.2005, e 29.12.2004 hanno firmato una convenzione, con Italia Lavoro spa e le tre associazioni di rappresentanza delle agenzie di somministrazione (AIL, APLA, Confinterim).
[viii] Rispettivamente: Delib. G.R. Campania n. 2194/2004; PDL Emilia Romagna, BUR n. 327/2004.
[ix] Anche nella proposta di direttiva comunitaria in materia di lavoro temporaneo – la cui approvazione è peraltro al momento bloccata – risultano ammissibili deroghe al principio di parità di trattamento “under a specific pubblic or publicly supported vocational training, integration or retraining programme”.
[x] La circolare n. 41 in proposito ha affermato che: “Peraltro, qualora il lavoratore abbia già una professionalità adeguata al lavoro proposto può non essere necessario il percorso formativo”. Tale affermazione è stata tuttavia fortemente criticata in dottrina. Si veda Treu (2004), La somministrazione degli svantaggiati tra intese nazionali e norme regionali, in “Contratti & Contrattazione collettiva”, 12, p. 3 e Rausei (2005), La somministrazione in workfare, in DPL, 1, 2005, p. 29.
[xi] Tuttavia, la circolare n. 41, anche in questo caso rinvia alle altre fonti di disciplina dell’istituto – vale a dire la normativa regionale ovvero, in sua assenza, alle convezioni – la facoltà di imporre l’estensione di tale apparato di obblighi in capo ai somministratori per beneficiare dell’incentivo economico.
[xii] Ferrera M. (2004), La gestione del rischio economico di disoccupazione in Europa: osservazioni comparate e implicazioni per l’Italia, in Porcari (a cura di) “Sistemi di welfare e gestione del rischio economico di disoccupazione”, ISFOL, Franco Angeli, Milano.
[xiii] Nogler (2004), Articolo 13. Misure di incentivazione del raccordo pubblico privato, in Pedrazzoli (coordinatore) “Il nuovo mercato del lavoro. Commento al d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276”, Zanichelli, Bologna.
[xiv] Si veda, ad esempio, quanto stabiliva il d.lgs. 468/97 in tema di decadenza dai trattamenti previdenziali e cancellazione dalle liste di mobilità dei soggetti che rifiutavano l’avviamento ai lavori socialmente utili, ovvero quanto stabiliva la legge 223/91 in tema di cancellazione del lavoratore dalle liste di mobilità ed ora la finanziaria 2004 (art. 3, co. 137, l. n. 350/2003), che è intervenuta uniformando i requisiti per il godimento del trattamento di mobilità, di disoccupazione ordinaria o speciale, nonché di ogni “altra indennità o sussidio, la cui corresponsione è collegata allo stato di disoccupazione o inoccupazione”. Si noti che quest’ultimo articolo stabilisce, altresì, l’abrogazione di “tutte le disposizioni legislative e regolamentari incompatibili”. Pertanto Nogler, cit, p. 180, sostiene che lo stesso art. 13, in parte, ne risulti implicitamente abrogato, dovendosi assumere che la condizionalità ivi stabilita sia stata sostituita da quella contenuta nella stessa l. n. 350/2003 citata.
[xv] Garofalo (2004), Organizzazione e disciplina del mercato del lavoro. Dal collocamento al rapporto giuridico per il lavoro, in Curzio (a cura di) “Lavoro e diritti dopo il decreto legislativo 276/2003”, Cacucci Editore, Bari.
[xvi] Il D.lgs. 276/03 (art.7), sintetizzando, affida alle Regioni il compito di istituire un elenco dei soggetti accreditati, ai fini dell’inserimento degli stessi nel sistema dei servizi al lavoro regionali. Nella legge marchigiana in proposito ha affidato alla Giunta, tra l’altro, la definizione dei “requisiti minimi per l’accreditamento”, relativi alle “capacità gestionali e logistiche, alle competenze professionali, alla situazione economica, alle esperienze maturate nel contesto territoriale di riferimento”. È inoltre richiesta, pena la revoca dell’abilitazione, “l’applicazione integrale degli accordi e contratti collettivi nazionali, regionali, territoriali e aziendali.”
[xvii] E cioè: standard minimi dei piani di inserimento o reinserimento nel mercato del lavoro e degli interventi formativi che devono essere erogati; requisiti professionali dei tutori aziendali; categorie che, tenuto conto dell’andamento del mercato del lavoro, possono essere assunte in tale forma; cause che legittimano il rifiuto dell’offerta lavorativa da parte del soggetto svantaggiato, senza che lo stesso incorra nella decadenza di indennità o diritti.
[xviii] Peraltro, la decadenza opera ove il rifiuto della attività lavorativa venga opposto “senza giustificato motivo” e qualora il corso venga rifiutato, ovvero non regolarmente frequentato, “fatti salvi i casi di impossibilità derivante da forza maggiore”.
[xix] Nogler, cit., p. 179.
[xx] Si vedano gli artt. 12 e ss. del già citato D.P.G.R. 4 febbraio 2004, n. 7/R.
[xxi] Con riguardo a questi ultimi è previsto che il tutor può essere scelto tra i dipendenti della agenzia e che in ciascun intervento si dovrà individuare il rapporto numerico tra tutor e lavoratori.