E’ un mantra che riecheggia ormai da decenni, inesorabilmente ripetuto ad ogni Outlook, ad ogni rapporto delle grandi istituzioni internazionali, dal Fondo monetario internazionale all’Ocse, l’organizzazione che riunisce i paesi industrializzati: decentralizzare, fare i contratti a livello di azienda. L’Ocse ha cominciato a parlarne con la sua Jobs Strategy nell’ormai lontano 1994 e, da allora, non ha mai smesso. Fino ad oggi. Fino all’Employment Outlook uscito a luglio 2018, che sembra aggiungere un’altra tappa significativa alla lunga fase di ripensamento nelle grandi organizzazioni internazionali sulla caduta del potere contrattuale dei lavoratori e sul ruolo del sindacato.
Perché la contrattazione decentrata? Perché, spiegavano, il legame fra salario e produttività della singola azienda si rompe quando si impone lo stesso parametro salariale ad un intero settore industriale. Lavoratori e aziende con produttività più bassa e incapace di sostenere quel salario rischiano di trovarsi fuori mercato. È il punto di vista della microeconomia, direbbe un economista. È il modello Marchionne, direbbe chi ha seguito la storia di questi anni. Ma ora si scopre che, dal punto di vista della macroeconomia – cioè dell’occupazione e della disoccupazione a livello generale – quel modello non è affatto il più efficiente. Secondo l’ultimo Outlook, funziona meglio un sistema con larghi, anche se flessibili, accordi salariali orizzontali, che presuppongono un sindacato forte, imprenditori che lo rispettino e un governo attento e partecipe. Con Marchionne, dunque, tramontano anche Berlusconi e Renzi. In fondo, è il modello Ciampi-Trentin: il Grande Accordo del luglio 1993.
Per arrivare alla rivalutazione della contrattazione collettiva, l’Ocse mette a confronto i sistemi di diversi paesi e i risultati che hanno avuto, in termini di mercato del lavoro, fra il 1980 e il 2015. Ovviamente, le strutture contrattuali non sono l’unica variabile che ha inciso sulla performance delle diverse economie. Ma non si può neanche sostenere che siano irrilevanti. Il confronto viene effettuato fra paesi in cui la contrattazione è totalmente decentralizzata, come Stati Uniti e Gran Bretagna, e gli altri. Anticipo la conclusione: il sistema americano – quello con poco sindacato e tutto avviene azienda per azienda – è quello che ha dato i risultati peggiori. La chiave del successo, secondo l’Ocse, è una contrattazione non tanto centralizzata, quanto coordinata – attraverso l’intervento di sindacati, organizzazioni imprenditoriali, governi – che fornisca un quadro generale di riferimento ai diversi settori e alle diverse aziende e che tenga conto del ciclo economico e delle esigenze di competitività nel definire una forbice di aumenti salariali.
È il sistema di coordinamento contrattuale che esiste in Germania, in Austria, nei paesi scandinavi, in Olanda. Gli accordi avvengono a livello di settore industriale (con varie possibilità di opt-out e di esenzioni) ma sono coordinati nei parametri fondamentali. I dati dicono che, rispetto al sistema all’americana, la disoccupazione è stata di tre punti percentuali in meno e l’occupazione è salita di quattro punti in più nel periodo 1980-2015. Un sindacato forte protegge solo gli insiders, quelli che un lavoro ce l’hanno già? Niente affatto. Rispetto al sistema anglosassone, l’occupazione giovanile ha guadagnato 6 punti in più, quella femminile 1 punto e quella dei lavoratori a bassa qualifica 2,5 punti. Anche l’occupazione part time è più bassa, in particolare (per 1,3 punti percentuali) quella non voluta. Leggermente più diffuso, invece, il lavoro temporaneo.
E l’Italia? Con Francia e Spagna, ricade, secondo l’Ocse, nel gruppo di paesi in cui la contrattazione è prevalentemente centralizzata a livello settoriale, ma scarsamente coordinata fra i diversi settori: rare le deroghe, aumenti salariali determinati in modo indipendente. I risultati sono ancora migliori del sistema all’americana, ma un po’ meno. L’occupazione totale è cresciuta di 2,8 punti in più, e il tasso di disoccupazione è sceso di quasi mezzo punto oltre quanto avvenuto nei sistemi completamente deregolamentati.
La conclusione è un ribaltamento di quello che, in questi anni, è stato il pensiero dominante. Rispetto agli anni ’80, nei paesi Ocse l’adesione ai sindacati si è dimezzata e la copertura della contrattazione collettiva ha seguito la stessa sorte. Gli economisti dell’organizzazione che raccoglie i paesi industrializzati non brindano più a questo rinsecchimento della rappresentanza sindacale. Al contrario, la nuova Jobs Strategy, che sta per uscire, identifica tre obiettivi per il mercato del lavoro: più posti di lavoro e migliori; un mercato del lavoro più inclusivo; capacità di adattarsi ai cambiamenti. Gli obiettivi non sono una novità. Ma l’Ocse nota fin da ora che “la contrattazione collettiva ha il potenziale per giocare un ruolo di primo piano su tutti e tre”.
Maurizio Ricci