Il dato politicamente più rilevante degli ultimi referendum non è la scarsa affluenza: prevedibile e, del resto, sostanzialmente prevista. Non è il mancato quorum per i quattro referendum che ruotavano intorno alle modifiche dello Statuto dei lavoratori e alle norme sui licenziamenti. È dal referendum sulla scala mobile degli anni ‘80 che è evidente come la centralità della classe operaia, nel paese, sia esaurita e il caso ha anche voluto che il referendum si svolgesse in un momento di spinta sulle assunzioni, anziché sui licenziamenti: il dibattito non è mai arrivato al nodo della qualità del posto di lavoro. No, lo choc politico è tutto concentrato sul quinto referendum e sul fatto che un terzo degli elettori che, obbedendo al richiamo alle urne dell’opposizione hanno votato, hanno però bocciato la proposta di accorciare i tempi necessari per ottenere la cittadinanza.
Siccome i ragionamenti che decidono il voto sono raramente sofisticati, il messaggio che viene da questi No inattesi può essere riassunto in termini brutalmente semplici: “Non vogliamo gli immigrati”. Possiamo anche tentare un conto. In Italia, ormai, va a votare la metà degli aventi diritto. Sommando i sentimenti antiimmigrazione che dominano a destra con queste impreviste resistenze a sinistra, abbiamo un 60 per cento di potenziali votanti contrari all’integrazione degli immigrati. Una maggioranza schiacciante. Difficilmente, una eventuale mobilitazione dell’altro 50 per cento di astenuti cronici modificherebbe queste tendenze.
È la prova dell’egemonia incontrastata che ormai esercita (non solo in Italia, del resto) la narrazione dell’immigrazione come invasione che fa la destra. E dell’incapacità – o, forse, è più esatto dire del mancato impegno – della sinistra di articolare una proposta di integrazione, diversa dall’accoglienza ecumenica della Chiesa, che punti a smussare le frizioni che l’immigrazione comporta e a sottolineare le risorse che offre. In termini altrettanto brutalmente semplici: “Senza immigrati, niente pensione”. L’inverno demografico, infatti, non significa solo un Pil più basso. Tutta la struttura del welfare creato nel secolo passato si fonda sull’apporto dei lavoratori attivi.
E, dunque, è il momento di un bagno di realismo. Con acqua fredda, gelida per molti. Per tenere in piedi la baracca, infatti, occorre quadruplicare il numero di immigrati presenti nel paese e dare per scontato che, a fine secolo, un italiano su tre (cittadino o no) sia di origine straniera. Non pensate che questi siano i numeri che dà la Caritas. Sono quelli che si ricavano, invece, dalle analisi del gruppo di lavoro che si occupa, specificamente, di invecchiamento della popolazione presso la Commissione di Bruxelles.
Sono, per giunta, analisi anche abbastanza riluttanti. Presuppongono, ad esempio, che il tasso di fertilità, oggi giunto al minimo storico di 1,14 figli per donna che abbia la cittadinanza italiana, risalga prepotentemente – dal punto di vista statistico – a 1,37 nel 2035 e a 1,56 nel 2100, ovvero, quello che avevamo nel 1982, quando si diventava madri a 25 anni e non 32 come oggi. Ma questo non ci impedirebbe ugualmente di perdere 10 milioni di italiani ogni 25 anni. E di vedere, intorno, quasi solo teste canute. Già oggi ci sono due ultrasessantacinquenni per ogni giovane sotto i 15. La classica piramide demografica si è rovesciata di 180 gradi. Erano quattro bambini, due genitori e una nonna superstite. Oggi sono quattro nonni, due genitori e un bambino. L’età media 2025 in Italia è oltre 46 anni, a ridosso della menopausa.
Ma non è solo un problema di cultura e vita quotidiana. In termini economici, il sistema pensionistico italiano ed europeo si fonda sui contributi che pagano i lavoratori attivi (età 20-67 anni). I contributi trattenuti, ogni mese, sulla busta paga, vanno a pagare le pensioni dei pensionati. Quando quei lavoratori attivi saranno loro in pensione, la pensione sarà pagata dai contributi dei loro figli.
Il problema è che, già oggi, il sistema zoppica, perché, in Italia, solo due persone su tre lavorano (e pagano contributi). Nel 2050, ci sarà un italiano che lavora per ogni italiano che non lavora: bambini (pochi) e anziani (molti). Quanto dovrebbe pagare di contributi quel lavoratore per alimentare, da solo, la pensione del padre? O i contributi aumentano a livelli stratosferici o le pensioni scendono a livelli infinitesimi.
Per uscire da questo imbuto, servono gli immigrati. Quanti? Oltre 13 milioni più di oggi entro il 2050, per stabilizzare la popolazione. In pratica, il numero di stranieri residenti (peraltro fermo o quasi da una decina d’anni, nonostante tutti gli allarmi di invasione) dovrebbe quadruplicare. Altro che i 150 mila permessi l’anno che vengono concessi oggi. Ne servono almeno 450 mila l’anno fino al 2035. Alla fine, nel 2100, gli immigrati saranno un terzo della popolazione. Piaccia o no. Secondo il Working Group on Ageing presso la Commissione Ue, non c’è molto da scegliere. Qualcuno lo dica ai partiti. Di destra e di sinistra.
Maurizio Ricci