La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13525 depositata il 20 maggio 2025, ha messo un freno alle pratiche contrattuali che trasformano il trattamento di fine rapporto (TFR) in una sorta di “paghetta” mensile. Nel caso in esame, l’azienda Energo Logistic S.p.A. aveva convenuto con i propri dipendenti di erogare ogni mese in busta paga una quota del TFR, a partire da ottobre 2013 fino a febbraio 2015, senza indicare alcuna causale specifica. In questo modo, il TFR – che per legge è un accantonamento annuale destinato a garantire al lavoratore una somma una tantum al termine del rapporto di lavoro – veniva frazionato e trasformato in componente ordinaria della retribuzione, sottraendo all’INPS la possibilità di riscuotere i contributi previdenziali e assistenziali dovuti su quelle somme.
L’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, rilevando l’assenza di motivazioni ammesse dalla normativa – come le spese sanitarie per gravi patologie o l’acquisto della prima casa –, aveva emesso un verbale d’accertamento contestando a Energo Logistic la natura di retribuzioni di quegli importi e chiedendo il versamento dei contributi omessi. In primo grado, il giudice ordinario aveva dato ragione all’INPS, partendo dal presupposto che una volta addebitato in busta la quota di TFR essa doveva considerarsi come stipendio mensile e soggetta a contributi. In appello, però, la Corte di Bologna aveva ribaltato questa decisione, sostenendo che le parti avevano esercitato legittimamente la facoltà di pattuire condizioni di favore, trasformando contrattualmente il TFR in un’indennità erogata mensilmente.
La Cassazione ha invece affermato che l’anticipazione del TFR è sempre e comunque una misura “una tantum” e che la legge – all’articolo 2120 del Codice Civile – ammette sì la possibilità di stabilire, rispetto ai limiti ordinari, percentuali più elevate o causali ulteriori a quelle tassative, ma non prevede alcuna possibilità di erogare sistematicamente e mensilmente un accantonamento che, per sua natura, deve rimanere intatto fino alla fine del rapporto di lavoro. Consentire un anticipo continuo, privo di giustificazioni esterne, significa snaturare la funzione stessa del TFR, trasformandolo in salario; di conseguenza, le somme percepite mensilmente dai lavoratori dovevano essere ricondotte alla categoria delle retribuzioni ordinarie, con tutti i conseguenti obblighi contributivi e fiscali. La Corte ha dunque accolto il ricorso dell’INPS, spiegando che l’autonomia negoziale tra datore e lavoratori non può travolgere la ratio della norma: l’anticipazione non può diventare un sistema di pagamento periodico e indistinto, altrimenti si tradisce il carattere di “risparmio” che il legislatore ha voluto garantire al lavoratore in vista della cessazione del rapporto.
Questo orientamento riafferma un principio di tutela sia per il lavoratore sia per il sistema pensionistico. Da un lato, il lavoratore che riceve mensilmente il TFR perde il cosiddetto “cuscinetto” economico destinato a sostenere le prime fasi della vita dopo la perdita dell’impiego; dall’altro, l’INPS subisce una riduzione degli incassi contributivi e rischia una distorsione nel calcolo delle prestazioni future. Ne consegue che le clausole aziendali volte ad anticipare il TFR in mancanza di causali specifiche non potranno più sopravvivere: le imprese che avevano introdotto condizioni contrattuali di questo tipo dovranno adeguarsi, eliminando dal contratto qualsiasi previsione di erogazione mensile continuativa a titolo di TFR. Se si intende offrire qualche forma di agevolazione sul trattamento di fine rapporto, sarà invece necessario rispettare la rigidità dei criteri normativi – consentendo un’unica anticipazione, motivata da esigenze tipiche e non oltre il 70% dell’importo maturato – oppure introdurre, nel rispetto dell’arte contrattuale, nuove causali conformi alla legge.
In definitiva, con la sentenza 13525/2025 la Cassazione ha ricondotto il TFR alla sua funzione originaria: non un premio di presenza mensile, bensì un accantonamento obbligatorio che si trasforma in liquidazione solo al termine del rapporto di lavoro o in presenza di specifiche esigenze del lavoratore. Le imprese e i sindacati, in fase di contrattazione, dovranno attenersi a queste indicazioni, evitando di ingenerare fraintendimenti tra componenti ordinarie di salario e risorse riservate al TFR. I dipendenti, dal canto loro, devono prestare attenzione a valutare l’opportunità di un’eventuale anticipazione, sapendo che una richiesta di tale natura potrà essere soddisfatta una sola volta, dietro presentazione di una causa ammissibile e con i limiti percentuali stabiliti. Solo così si salvaguarderà l’equilibrio tra le esigenze di liquidità immediata del lavoratore e la funzione di garanzia previdenziale che il TFR assicura presso l’INPS.
Biagio Cartillone


























