A che serve Confindustria? L’interrogativo è di moda in questi giorni, dopo le assisi e l’assemblea della confederazione degli industriali. Se l’è posto in maniera dirompente un osservatore tra i più accorti, con una lunga esperienza nell’organizzazione, se lo pongono tutti coloro che si soffermano sugli equilibri politici ed economici del nostro paese in questo momento di grande cambiamento. Se tutto muta, se gli equilibri politici che si credevano consolidati vacillano, quando non sono sovvertiti, perché non deve cambiare Confindustria? E del resto è stata proprio la presidente all’assemblea a ritenere di dover difendere l’istituzione che guida dagli attacchi che riceve.
Tanto più l’interrogativo è attuale in questi giorni in cui la Fiat sembra stia decidendo se restare dentro la confederazione o lasciarla per sempre. Per capire a cosa serva la Confindustria forse è proprio da qui che occorre partire, ricordando quando la Fiat pagava i suoi contributi alla confederazione, ma in pratica ne era distante mille miglia. Erano gli ultimi anni sessanta, la Confindustria usciva da un’infelice esperienza politica, durante la quale si era opposta, inutilmente, al centrosinistra tanto da mettere in piedi una Confintesa con agrari, commercianti a artigiani. Politicamente contava meno di nulla, ma anche sul piano economico e sociale era considerata negativamente o, peggio, non era considerata per nulla. Nemmeno il tentativo, che sembrava estremo, di richiamare alla guida della confederazione Angelo Costa, il presidente della ricostruzione, era servito a risalire la china. Si capiva che la confederazione doveva girare pagina, riacquistare il controllo della situazione, soprattutto recuperare il sostegno e la presenza attiva delle aziende, tutte, quelle piccole e medie certamente, ma anche e soprattutto quelle grandi, che tendevano invece in quegli anni a fare da loro, assenti dalle politiche della confederazione.
C’era un motivo a giustificare questo lento, ma sembrava inesorabile, allontanamento delle grandi aziende, ed era la deriva che la confederazione aveva preso in quegli anni, quando era diventata per lo più un comitato d’affari, gestito oligarchicamente, su non più attuali canoni economici, al punto che non contava più nulla, non era più certo più un punto di riferimento, era incapace di capire cosa serviva al paese, all’industria, alle aziende. La responsabilità di questo stato di cose era la “politica della torretta”, come la chiamava Piero Pozzoli, che l’ha combattuta per anni, spesso con successo. La politica che si praticava nelle riunioni periodiche di un gruppo ristretto di industriali che si tenevano all’ultimo piano della sede di Confindustria a piazza Venezia a Roma, appunto nella torretta del palazzo di proprietà delle Generali che ospitava la confederazione.
In quegli anni Confindustria aveva perso la sua anima e furono i Giovani imprenditori di Confindustria a indicare la linea da seguire per una palingenesi. Lorenzo Vallarino Gancia e Renato Altissimo, e con loro tutto il gruppo dirigente di quei giovani imprenditori, seppero individuare il punto dolente e indicare la cura, che era una sola, il ritorno degli industriali in prima persona alla guida della confederazione, nelle sue diverse diramazioni di categoria e di territorio, su regole democratiche di alternanza.
Non si posero il problema se Confindustria fosse o meno necessaria, davano per assodata una risposta positiva, a patto che la confederazione sapesse essere all’altezza del suo compito, che è certamente quello di assistere gli industriali nei loro affari, rinnovare i contratti di lavoro e promuovere la politica industriale, ma anche e soprattutto diffondere e difendere la cultura d’impresa. Credevano che il ceto imprenditoriale dovesse essere all’avanguardia nel rinnovamento del paese, volevano essere nella stanza dei bottoni, non per comandare, ma per dare l’esempio, per indicare la via da seguire per la crescita economica e culturale del paese.
Con loro si schierarono alcuni grandi imprenditori illuminati, come si diceva allora, su tutti Gianni Agnelli e Leopoldo Pirelli, due giganti se guardiamo ai nani di oggi, senza offesa per nessuno. E ci riuscirono, nonostante nel frattempo fosse scoppiato l’autunno caldo, che significò l’emarginazione degli industriali per un certo numero di anni. Tanti dicono che quella riforma non fu mai attuata fino in fondo, che poi fu tradita, la verità è che Confindustria tornò nel giro di qualche anno a essere uno dei più grandi soggetti politici, nel senso positivo, non certo per i rapporti con la politica, dalla quale Confindustria, almeno negli anni buoni, si è sempre tenuta giustamente lontana, ma perché in grado di influenzare il destino del paese.
Adesso che Marchionne fa la voce grossa e minaccia di fare le valigie bisognerebbe tornare al ricordo di quegli anni, alla forza che gli industriali seppero esprimere. Proprio perché l’Italia ancora una volta è a un giro di boa, perché tanti hanno perso l’orientamento, sarebbe necessario tornare a quegli anni, per ritrovare la forza morale che li spinse a reagire a una situazione di difficoltà in cui si erano trovati e tornare a essere un punto di riferimento per tutti, una voce nel coro, ma autorevole. Confindustria serve, a patto che sappia esercitare un ruolo politico di primo piano. Se deve essere un sistema per correggere la politica economica o, peggio, guidare gli affari, allora un’istituzione vale l’altra, può essere Confindustria o Assonime o un’altra cosa. Se si perde di vista l’obiettivo principale nemmeno porsi il problema di cosa serva Confindustria è importante.
Massimo Mascini

























