Un ostetrico coordinatore di una ASL era stato trasferito d’ufficio nel 2002 in una sede distante dalla sua abituale, trasferimento che nel 2009 il Tribunale di Frosinone aveva dichiarato illegittimo. Dopo quella pronuncia, il lavoratore aveva chiesto il risarcimento dei danni per quasi otto anni di spostamenti quotidiani: rimborso chilometrico e ristoro delle spese di utilizzo dell’auto privata, oltre alla retribuzione delle due ore giornaliere impiegate per il tragitto. Le sue domande furono respinte sia dal Tribunale di Cassino sia, nel 2021, dalla Corte d’Appello di Roma.
Davanti alla Cassazione il ricorso si è concentrato su due fronti. Da un lato, il rimborso delle spese sostenute per l’uso della propria auto; dall’altro, la retribuzione o il risarcimento per il tempo di viaggio. La Suprema Corte ha distinto nettamente i piani. Sul primo punto ha accolto il ricorso, osservando che la Corte d’Appello aveva applicato in maniera scorretta l’articolo 1227 del codice civile, che impone al danneggiato di limitare il danno con l’ordinaria diligenza. Pretendere che il lavoratore provasse, in modo analitico e puntuale, l’impossibilità di utilizzare mezzi pubblici significava in realtà addossargli un onere probatorio eccessivo. Non era lui a dover dimostrare l’inesistenza di alternative, ma semmai il datore di lavoro a dover provare che esistevano soluzioni realmente praticabili, compatibili con tempi e costi accettabili. Il trasferimento illegittimo lo aveva comunque costretto a servirsi dell’auto, e quel danno non poteva restare privo di ristoro.
Sul secondo punto la Cassazione è stata altrettanto chiara, ma in senso diverso. Non ha riconosciuto il diritto del lavoratore alla retribuzione delle ore di viaggio non perché questa pretesa fosse in astratto infondata, ma per un difetto di allegazione e prova. Il tempo impiegato per raggiungere la sede, di per sé, non diventa orario di lavoro salvo il caso dei lavoratori itineranti (autisti, trasfertisti, ecc.), ma può comunque costituire fonte di danno se venga dimostrata una concreta lesione di diritti protetti: danno alla salute, violazione del diritto al riposo, compressione della vita familiare. Nel caso specifico, il lavoratore non aveva allegato né provato simili conseguenze, e per questo la sua domanda non è stata accolta.
È bene sottolineare che ogni processo civile si muove rigorosamente nell’alveo delle domande e delle eccezioni difensive proposte dalle parti: il giudice non può sostituirsi all’iniziativa dei soggetti coinvolti. Anche le pronunce della Cassazione, come quelle di qualsiasi altro giudice civile, risentono necessariamente di questa regola processuale, che impedisce di ampliare o modificare d’ufficio il perimetro della controversia.
In conclusione, la Cassazione ha accolto parzialmente il ricorso, cassando la sentenza della Corte d’Appello di Roma per la parte relativa al rimborso delle spese di viaggio e rinviando ad altra sezione della stessa Corte per una nuova valutazione. Per le parti sociali il segnale è netto: il trasferimento illegittimo non resta senza conseguenze e può costare caro al datore, soprattutto se il lavoratore ha dovuto sostenere costi diretti e documentabili. Ma non tutto il disagio si traduce automaticamente in un risarcimento: per vedersi riconosciuto un danno da maggiore tempo di viaggio serve che il lavoratore lo alleghi con precisione e ne provi l’incidenza concreta sulla propria vita e sui propri diritti. Le sentenze non sono verità assolute valide terra marique: restano decisioni calate dentro il quadro delle domande e delle prove delle parti, e proprio per questo vanno lette come risposte a un caso concreto, non come regole universali.
Biagio Cartillone


























