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Home - Approfondimenti - Analisi - Troppo e troppo poco nella proposta di Bombassei

Troppo e troppo poco nella proposta di Bombassei

21 Luglio 2005
in Analisi

Ida Regalia – Ordinario di sociologia del lavoro all’Università Statale di Milano

1. Da qualche tempo l’attenzione e l’interesse per i temi di relazioni industriali in senso stretto sembrano aver ripreso smalto, dopo un periodo di progressivo appannamento, durante il quale il dibattito politico e scientifico nel campo del lavoro si era andato se mai spostando verso le tematiche, vicine ma non coincidenti, del welfare, dei suoi costi, dei suoi limiti, dell’urgenza di riformarlo; o su quelle della flessibilità intesa quale esigenza pressoché assoluta delle imprese.

Ora da più parti si ritorna a parlare e scrivere di azione e rappresentanza sindacale, di contrattazione collettiva, di modalità di esercizio del diritto di sciopero, vale a dire di vari aspetti delle relazioni di lavoro mediate collettivamente. E lo si fa non solo con il piglio critico di chi sta enumerando i vari mali che affliggono il Paese, ma anche con un cauto tono di speranza per le loro possibili virtù.


 


Ci si può chiedere se non si sia in presenza di una nuova fase. La prudenza in questo caso è però quanto mai d’obbligo, dal momento che per ora non disponiamo che di segnali nel complesso deboli, quali intese su temi relativamente circoscritti, dichiarazioni di singoli responsabili e protagonisti, o prese di posizione congiunte, di cui si legge di tanto in tanto sulla stampa e nei siti delle organizzazioni interessate. Ma non vi è alcuna certezza che ai segnali di un possibile mutamento seguano poi fatti realmente significativi.


In effetti, è da oltre un anno che si susseguono avvisaglie di mutamento nelle relazioni tra le parti sociali. A marzo dell’anno scorso si è tenuta la prima assemblea unitaria degli ultimi dieci anni dei delegati di Cgil, Cisl, Uil, segno di una ritrovata unità d’azione nei confronti della politica economica e sociale del Governo. Nello stesso mese è stato raggiunto l’accordo interconfederale per il settore artigiano: un vero e proprio accordo quadro d’ampio respiro – scrivevamo allora su questo sito – volto a ridefinire il modello contrattuale del settore in una prospettiva di particolare interesse anche per gli altri comparti economici, oltre che a fare il punto e innovare in merito agli istituti che caratterizzano in modo originale le relazioni industriali nell’artigianato (organismi bilaterali, ammortizzatori sociali, previdenza complementare). A maggio, il discorso di investitura del nuovo presidente di Confindustria è stata l’occasione per sottolineare l’intento di rilanciare il dialogo con i sindacati nello spirito di fiducia reciproca che aveva caratterizzato l’accordo del 1993 e ridare impulso alla concertazione tra tutte le parti sociali. A giugno, il congresso della Fiom Cgil ha segnato per diversi aspetti una svolta nella ricerca del dialogo con gli altri sindacati. A luglio, il nuovo ministro dell’Economia ha ripreso la prassi (prevista dall’accordo del luglio 1993) di consultare le parti sociali sul Documento di programmazione economico-finanziaria. All’inizio di novembre, è stato firmato l’accordo interconfederale per il recepimento dell’accordo quadro europeo sul telelavoro, che costituisce la prima intesa su un tema proposto a livello europeo che non registri rotture tra le parti sociali e che è stato accolto sulla stampa come segno di svolta nelle relazioni industriali. Ancora a novembre, le tre confederazioni sindacali e tredici associazioni degli imprenditori hanno firmato un documento congiunto, rivolto al Governo, di proposte per il rilancio dell’economia nel Mezzogiorno, che dal sindacato è stato salutato come il primo accordo importante firmato con la nuova Confindustria. E, da più punti di vista, segnali di rinnovamento delle relazioni tra le parti si possono ritrovare anche in alcuni rinnovi contrattuali di categoria, come in quello dei bancari raggiunto nel febbraio 2005.


 


Tutto questo non equivale peraltro a un semplice spostamento del baricentro delle relazioni industriali verso il polo della ricerca dell’accordo e della cooperazione. Alla (parzialmente) ritrovata unità d’azione dei sindacati ha anzi subito corrisposto il ricorso allo strumento dello sciopero generale nei confronti della politica economica del Governo. Nel nuovo clima di dichiarazioni di interesse reciproco al dialogo costruttivo, nel luglio dello scorso anno ha fatto un certo scalpore il repentino abbandono, da parte del leader della Cgil, del tavolo costituito per definire un accordo interconfederale per il rilancio dell’economia di fronte alla proposta della Confindustria di discutere di riforma della contrattazione collettiva – tema su cui non era stata concordata una posizione comune tra sindacati e che veniva sollevato in un periodo in cui molti importanti contratti aspettavano di essere rinnovati. E una notevole ripresa del conflitto ha poi segnato le vicende – in parte ancora aperte – dei rinnovi dei contratti di categoria di maggior peso: quelli dei metalmeccanici, del pubblico impiego, del trasporto pubblico locale.


Il che ricorda – se ce ne fosse bisogno – che quello delle relazioni industriali non è un terreno di mere buone intenzioni, ma di confronto anche aspro, in cui si misurano letture non necessariamente consonanti del contesto economico, accentuazioni differenti a seconda degli interessi di cui ciascuna parte è portatrice, e in cui possono avere ampio peso le azioni dimostrative, tanto più quanto meno sono disponibili criteri di comportamento degli attori inequivocabilmente condivisi.


 


 


2. Questa lunga premessa ci serve per collocare nel contesto più generale il senso dell’ultima presa di posizione a favore della logica della concertazione da parte del vicepresidente di Confindustria per le relazioni industriali e gli affari sociali, Alberto Bombassei, in occasione dell’assemblea generale della Federmeccanica del 30 giugno scorso.


Nell’intervento dell’autorevole dirigente degli industriali, la proposta di “un nuovo ‘patto costituzionale’ fra le parti sociali, in grado di affrontare tutti gli aspetti essenziali delle regole di relazioni industriali” giunge in conclusione di un’analisi che prende le mosse dalla crisi di competitività che caratterizza l’economia del Paese, aggravata dal fatto di collocarsi in una “situazione in cui nessuno sembra essere più in grado di decidere alcunché, in una sorta di immobilismo vissuto come una condanna inappellabile”. Serve al contrario “un impegno di tutti gli attori dello sviluppo industriale”, sia in una prospettiva di medio-lungo periodo, sia in una prospettiva di interventi incisivi a breve. Ciò chiama in causa il Governo, di cui si sottolineano le promesse e gli impegni mancati; ma chiama in causa anche le controparti sindacali. In un contesto in cui – vien detto – “le relazioni industriali rappresentano un fondamentale fattore di competitività”, occorre che le confederazioni abbiano la capacità di concorrere alla “adozione di modelli economici e sociali in linea con i grandi cambiamenti sia politici che industriali”, che caratterizzano la nuova grande fase di “un’economia basata sull’innovazione e la globalizzazione, dove contano molto di più [di prima] gli investimenti in ricerca, sviluppo e formazione, dove la sfida dei nuovi entranti è continua, dove la mobilità occupazionale è cruciale”. E occorre che esse svolgano il ruolo, che è loro proprio, “di indirizzo e orientamento dell’attività delle rispettive categorie, anche attraverso la definizione di accordi generali”.


Il riferimento allo stallo nella trattativa del rinnovo del contratto di categoria dei metalmeccanici è esplicito. E il patto che viene infine auspicato non a caso dovrebbe “rivedere tutti gli aspetti che influiscono sul normale svolgimento del rapporto in azienda: dalle regole per lo sciopero alle clausole di tregua sindacale, dalla capacità dei rappresentanti nazionali di far rispettare nel territorio i contenuti dei contratti collettivi, alla introduzione di idonee procedure di conciliazione ed arbitrato che, assistite da specifiche sanzioni, diano la possibilità di intervenire in caso di mancato rispetto degli accordi”.


 


 


3. L’intervento del vicepresidente di Confindustria conferma in qualche modo l’osservazione da cui siamo partiti circa la ripresa di un interesse per le relazioni industriali, al di là di una regolazione prevalentemente affidata al mercato: relazioni che esplicitamente vengono qui definite “fondamentale fattore di competitività”. E senza mezzi termini viene difatti riconosciuto, e anzi invocato, il ruolo decisivo che può essere svolto dall’intesa con i sindacati per il raggiungimento di obiettivi di competitività.


Indubbiamente, questa rivalutazione del possibile ruolo positivo delle relazioni industriali viene qui fatta nell’ottica dell’impresa, che richiede che esse permettano la definizione di “dosi sufficienti di flessibilità organizzativa”, necessarie ad aumentarne la competitività; e che richiede che tali relazioni siano il più possibile coerenti con la realizzazione di “quel patto – come vien detto – fra impresa, lavoratori e sindacati che consente la produzione di maggior valore aggiunto da redistribuire tra i fattori che hanno contribuito a crearlo”.


Ed indubbiamente è bene che sia così, vale a dire che venga responsabilmente assunto un punto di vista esplicito, quello dei rappresentati, intorno a cui organizzare la proposta di un nuovo patto costitutivo. Ma ci sembra anche che, nel modo in cui la proposta di patto viene presentata, si tenda allo stesso tempo a dire troppo e a dire troppo poco.


 


Si tende a dire troppo, dal momento che vengono indicati con un certo eccessivo dettaglio i temi e i termini dell’accordo, in qualche modo sottraendoli all’autonomia e al libero confronto tra le parti. Da un lato si parla infatti di inserire nei contratti di settore “soluzioni di flessibilità degli orari che possano essere utilizzate da parte di tutte le imprese senza ulteriori negoziazioni, confronti, scambi, con tutto il carico di conflittualità che queste fasi comportano”; e, ancora, si parla di “rivedere la struttura della retribuzione per creare un collegamento più stretto fra quote di salario e indicatori che tengano maggiormente conto del raggiungimento di obiettivi concordati, del riconoscimento del merito individuale, del grado di coinvolgimento dei lavoratori nel processo produttivo, ma anche delle condizioni locali dell’economia e del mercato del lavoro”, spostando il baricentro negoziale verso il basso. D’altro lato, si propone – come abbiamo visto – non solo di rivedere le regole di esercizio del diritto di sciopero e le clausole di tregua sindacale, ma anche di ridiscutere della capacità dei rappresentanti nazionali di far rispettare i contratti collettivi a livello locale, introducendo idonee prospettive di conciliazione e arbitrato.


 


Ma forse, e soprattutto, ci sembra che si tenda a dire troppo poco, dal momento che appare del tutto assente ogni considerazione circa le condizioni che renderebbero effettivamente possibile alle varie flessibilità indicate, come vien detto, di non ridurre le tutele e le garanzie dei lavoratori. Solo con tale certezza, infatti, sarebbe realmente percorribile e sostenibile, da parte di organizzazioni responsabili, la via di una profonda ridefinizione delle attuali prassi che forniscono stabilità e sicurezza ai lavoratori regolarmente assunti.


Si tratta del tema, noto in Europa con il termine di flexicurity, che allude alle strategie volte a inventare – anche con un pizzico di immaginazione, ma sostenuta da programmi adeguati, pubblici e non – modi di combinare le sacrosante variabili esigenze di flessibilità dal lato delle imprese con quelle non meno sacrosante di sufficiente vivibilità e sicurezza dal lato del lavoro. Da tempo nei Paesi più evoluti con cui ci piace confrontarci – dalla Danimarca, all’Olanda, alla Svezia, ma anche al Regno Unito – è su questo terreno, che riguarda fatti molto concreti, come i modi di conciliare lavoro – specie se prestato in modi flessibili – e attività di cura, o i modi di avere a disposizione – al di là di programmi di tutela forte ma circoscritta quale la cassa integrazione – servizi e strumenti affidabili di riferimento per la ricerca di occasioni di lavoro in caso di mobilità, che si gioca il dialogo tra le parti sociali e il futuro delle relazioni industriali. Specie in un Paese caratterizzato, come il nostro, dalla nettissima prevalenza di un’economia di piccola impresa, il non farvi alcun riferimento costituisce non piccolo limite.


 


 


4. Chi scrive è profondamente convinta della necessità di rivedere le regole, anzi, le prassi, nel nostro caso, delle relazioni industriali di fronte ai mutamenti radicali che interessano l’economia. Ma ritiene anche che ciò non possa efficacemente avvenire per pura decisione volontaristica, per quanto ragionevole e obiettivamente fondata, dei vertici – vale a dire delle segreterie delle organizzazioni di rappresentanza – come sembrerebbe essere prefigurato nell’intervento; ma che ciò non possa che essere l’esito di una parziale convergenza dell’interesse di tutte le diverse parti per l’accordo, e in cui venga in qualche modo coinvolto anche il punto di vista dei rappresentati.


E ritiene inoltre, alla luce dell’esperienza dei precedenti patti che hanno avuto efficacia reale, che una revisione delle regole richieda l’intervento di un terzo attore, quale garante dell’intesa: di un terzo attore che metta in campo non tanto o non necessariamente risorse a compensazione dei costi che le parti dovranno accollarsi, quanto risorse di supervisione e garanzia del rispetto dei termini dell’accordo.


È questa funzione fondamentale del terzo attore, che può rendere ragionevole la decisione (specie da parte delle organizzazioni del lavoro) di fare delle ‘concessioni’, calcolate e non solo a perdere, ad essere venuta meno negli ultimi tempi, contribuendo a erodere la capacità di tenuta dell’accordo del luglio 1993.


La sua assenza potrebbe rivelarsi un ostacolo di fondo al raggiungimento di nuove intese, più in linea con le circostanze. Da questo punto di vista, nel breve periodo ci si possono probabilmente attendere poche novità sul terreno generale delle relazioni industriali. Ma forse un’analisi spassionata di ciò che già ora avviene nei luoghi di lavoro, nelle relazioni tra imprese, lavoratori e loro rappresentanti, potrebbe in molti casi dischiudere non piccole sorprese positive.

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