di Marigia Maulucci, segretario confederale Cgil
C’è solo da augurarsi che gli interventi del Governo per la crescita del Paese e la dinamizzazione della domanda interna non si fermino ai provvedimenti decisi a Napoli. Tanto (troppo) rumore per nulla: un rumore, purtroppo, pagato al caro prezzo di circa tre miliardi che non possono e non devono esaurire le disponibilità del bilancio a favore nè dei redditi in affanno di lavoratori e pensionati, né degli urgenti interventi a sostegno dell’aumento di produttività e competitività.
La cancellazione dell’Ici ha molte controindicazioni: prosciuga le finanze degli Enti locali perché la restituzione è meccanismo complesso e spesso controverso, perché, alla faccia dell’autonomia impositiva, rimette in campo la politica dei trasferimenti dal centro, perché va a vantaggio soprattutto dei proprietari di case di medio-alto valore, essendo tutte le altre già sostanzialmente esonerate dalla disposizione del precedente governo, perché in tempi di vacche magre bisognerebbe scegliere con maggiore oculatezza le priorità. Soprattutto, però, dimostra, e se questo è l’asse della politica economica del Governo siamo fritti, come l’Esecutivo intenda privilegiare il capitale immobiliare, fermo e statico, rispetto a quello produttivo, perché possa essere dinamico e favorire la crescita. Risultato: 2,2 miliardi di euro buttati, a Napoli, nella spazzatura.
La detassazione degli straordinari è fondata su un assunto che sarebbe bene chiarire subito col Governo per capire cosa ha in testa quando parla di politica economica per la crescita. E’ indubbio che lavorando di più si guadagna di più, non è assolutamente certo che lavorando di più aumenti automaticamente la produttività del lavoro. Il circolo virtuoso tra tempo e competitività è dato dall’entità del Clup e dunque dalla quota di investimenti di innovazione tecnologica nei prodotti e nei processi produttivi. Favorisce la crescita della produttività il sostegno alla contrattazione aziendale che mira a costruire indicatori qualitativi di sviluppo e a ridistribuire i risultati della produttività realizzata. In questo quadro ha senso il sostegno fiscale al salario aziendale e persino allo straordinario, quando contrattato. Negli altri casi, è una soluzione discriminatoria tra lavoratori e lavoratrici, tra lavoratori che hanno l’opportunità di fare straordinario e quelli che non ce l’hanno, tra lavoratori del Nord e resto del mondo, tra lavoratori e disoccupati o precari, tra lavoratori pubblici e privati spesso conviventi nelle stesse unità lavorative. Per le tante tipologie del terziario, poi, si agisce l’ulteriore discriminazione tra lavoratori a tempo pieno e lavoratori a part-time con ore supplementari: è evidente la penalizzazione di questi ultimi sia in termini economici sia in termini di dilazione del consolidamento di un orario più lungo e dunque più dignitoso. Risultato: un altro miliardo non speso bene.
Le motivazioni critiche nei confronti di questi provvedimenti sono corpose e strutturate. Il fatto, poi, che una parte di lavoratori trarrà vantaggio da queste misure non annulla il giudizio, ci spinge semmai a dire che i provvedimenti sono troppo parziali per risolvere sia l’affanno delle retribuzioni sia le emergenze della crescita.
I ragionamenti che ho provato ad articolare fanno giustizia della diffusa critica che viene rivolta al sindacato, ma soprattutto alla Cgil, di essere ideologicamente orientato e lontano dalla concretezza dei problemi? Non è ideologico sostenere che con quei 3 miliardi si potrebbero fare due cose importanti per il lavoro dipendente e per la crescita del Paese.
Si può fare una vera redistribuzione fiscale verso il lavoro con vantaggi medi per i redditi intorno ai 25.000 euro di circa 400 euro, per tutti i lavoratori, di qualsiasi fascia di reddito, pubblici e privati. Si può rafforzare la riduzione fiscale, avviata col protocollo del Welfare, al salario di produttività alzando la detrazione fino a ulteriori 300-400 euro. Il vantaggio economico sarebbe consistente e quello complessivo maggiore, non discriminando e favorendo sia i redditi che la crescita del Paese. Tale risposta è concreta, non ideologica.
Una riflessione ai margini, sostanzialmente consegnata alla storia di un Paese che vuole uscire dagli slogan (e dunque non al nostro). L’ideologia è una cosa seria, è l’universo teorico di riferimento di ciascuno di noi, di un sindacato, di un partito, di una classe politica. Dell’impianto generale di valori, che sostiene la capacità/possibilità/volontà di scelta abbiamo bisogno: questo universo è l’ideologia, strumento di lettura della realtà, chiave essenziale per la sua decodificazione. In deficit di contesto teorico di riferimento, in assenza di idee cioè, la cosiddetta concretezza diventa pragmatismo, improvvisazione, opportunismo, sperimentalismo sterile. Tutti lussi che un grande sindacato non può concedersi.
Nel tentativo di ri-costruire un impianto strategico di respiro, Cgil, Cisl, Uil, hanno messo insieme due piattaforme che impostano una nuova politica dei redditi in grado di creare le condizioni per sostenere la crescita del Paese e favorire una redistribuzione generalizzata al lavoro dipendente – agendo su fisco, prezzi tariffe e casa – e mirata –attraverso la contrattazione aziendale – verso quei lavoratori che contribuiscono alla crescita della produttività, senza averne visto (finora) gli effetti in busta paga.
La piattaforma unitaria sul modello contrattuale segnala volontà di conoscenza di questo mondo che cambia e necessità di rappresentarlo: garantisce universalità salariale e normativa tramite la conferma del livello contrattuale nazionale e attenzione alle specificità sul piano dell’organizzazione del lavoro, della produttività, e quant’altro nella contrattazione aziendale. La scommessa è tutta da giocare, sia sui contenuti dell’accordo, sia sulle modalità di esercizio della parte così rilevante dell’intesa che attiene alle regole della democrazia e della rappresentanza. Ci sono le premesse perché la rappresentanza sia misurata e perché l’interlocuzione di politica economica col Governo e le controparti costituisca un asse strategico della democrazia economica.
La piattaforma sul fisco e quella sul modello contrattuale fotografano un processo unitario solido e maturo, solidità e maturità che l’interlocuzione con Governo e controparti datoriali metterà a dura prova. Speriamo che l’aria sia davvero cambiata, speriamo che non si giochi al massacro puntando solo, e strumentalmente, a dividere le organizzazioni sindacali, speriamo, infine, di non fornire pezze d’appoggio a queste pulsioni. Penso davvero che Cgil, Cisl, Uil siano fortemente interessate, tutte e tre, ad un ancoraggio forte e radicato al lavoro unitario di analisi e proposte compiuto fin qui.
Non sappiamo quando e come si apriranno i confronti, ma certo i soggetti seduti a quel tavolo dovranno assumersi in pieno una responsabilità per la quale occorrono spalle forti, lucidità e lungimiranza. Valori non particolarmente diffusi.
Le rappresentanze datoriali hanno, come tutti i corpi intermedi di questa società frantumata, problemi veri di rappresentanza e problemi altrettanto seri di qualità dei contenuti da proporre e imporre alla discussione collettiva. Raramente, in questi anni, abbiamo visto (sentito sproloquiare, tanto) impegno e rischio dell’imprenditoria a favore della crescita, centralità di temi quali innovazione, ricerca, liberalizzazioni, concorrenza, sfide globali. In compenso, fiumi di richieste su riduzioni fiscali, precarizzazione del lavoro, piccoli e grandi privilegi annidati nelle posizioni di rendita.
Il Governo, stabilmente in sella, gestisce una luna di miele cupa, fatta di decreti di espulsioni, chiusura di frontiere, stress al codice penale, nella stravagante ipotesi che un clima violento tranquillizzi e induca sicurezza. Abbiamo già cominciato a vedere come succeda, semmai, esattamente il contrario. Ha cavalcato il tema della paura per tutta la campagna elettorale, ha colluso con essa, pretende addirittura di eliminare la paura. E se c’è un cosa che davvero nella storia ha sempre terrorizzato tutti, è l’essere umano senza paura. Occorrerebbe, invece, fare in modo che le persone si sentano sicure, al punto tale da affrontare e vivere la paura, non il contrario. Quella forza è la sensazione di avere potere, di essere capaci di dialogare col proprio destino, di essere solidi nei propri limiti per vivere in un mondo che di confini ne ha sempre meno. Questa solidità è fatta anche di condizioni materiali, delle quali si parla sempre meno, forse perché davvero sono il tema centrale e forse anche perché sono molto più complicate da gestire e risolvere di minacciosi polveroni sugli immigrati.
Infine, il sindacato. Il lavoro di questi mesi segna un punto importante a nostro favore, ma certo non cancella le nostre difficoltà. Troppa lentezza e troppi ritardi nel definirne i contenuti: il tempo non riempito di elaborazione strategica di lungo periodo non passa inutilmente,sedimenta e incrosta i problemi, accredita un’immagine di sindacato in affanno davanti ai mutamenti, con le idee giuste rispetto alla prospettiva ma con scarsa propensione e scarso coraggio nel farle vivere nel proprio corpo sociale. Nelle assemblee sul protocollo del Welfare abbiamo incontrato una realtà lavorativa complicata, difficile, in grave ambascia per mancanza di soldi, di prospettiva, di futuro. In sintesi, di potere. Quel potere dato dalla capacità di leggere la società, interpretarne i mutamenti, comprendere ed agire la sintesi necessaria tra la propria capacità di ottenere risultati e il vantaggio per tutti.
I troppi cambiamenti nel mondo del lavoro non vanificano in sé la necessità che i lavoratori si facciano classe dirigente: il rischio vero, quello che segna inesorabilmente la qualità delle nostre difficoltà, è che di questa necessità abbiamo perso competenza e, quel che è peggio, consapevolezza.


























