di Giovanni Graziani – Giornalista
Cosa possono imparare l’uno dall’altro due sistemi di rappresentanza sindacale così diversi, almeno a prima vista, come quello italiano e quello tedesco? Quale che sia la risposta, la domanda non è solo accademica ma rappresenta una conseguenza concreta di quel processo epocale che ha portato all’adozione di una moneta comune a dodici Paesi d’Europa. Un’integrazione monetaria che, assieme alla più ampia integrazione dei mercati, fa dell’Europa un’area dove le lingue sono diverse ma gli interessi sono connessi, e la loro rappresentanza ha bisogno di trovare quanto meno un linguaggio comune su scala continentale. Per questo il confronto fra due esperienze nazionali così importanti, forse le più importanti fra i Paesi della moneta unica (almeno stando a parametri come i tassi di sindacalizzazione e la diffusione dell’applicazione dei contratti collettivi, oltre alle dimensioni del sistema economico), si presenta non solo interessante, ma anche utile e opportuno.
Su questo la Fai-Cisl ha promosso un dibattito che ha preso lo spunto da una recente pubblicazione[1], la ristampa anastatica di un manuale per fiduciari sindacali dell’Ig Metall, risalente al 1974, quando fu pubblicato in italiano per essere distribuito fra i rappresentanti sindacali che provenivano dal nostro Paese. Un manuale che un lavoratore emigrato, Gabriele Filippelli, ha portato con sé una volta tornato in Italia per lavorare nella forestazione in Calabria, diventando delegato sindacale della Fisba Cisl, oggi Fai Cisl. Il manuale è ora ripubblicato ad iniziativa di questa federazione, con un’introduzione che ripercorre rapidamente e in parallelo la storia del sindacato italiano e tedesco alla luce di alcune delle categorie ricavabili dal testo dell’Ig Metall, a cominciare dalla netta distinzione fra la rappresentanza sindacale (come rappresentanza degli iscritti) e la rappresentanza dei lavoratori (affidata all’elezione di rappresentanti).
Di questo la Fai ha invitato a discutere sindacalisti (italiani, tedeschi ed europei), docenti e osservatori, ponendo loro la questione che il segretario generale Albino Gorini, nell’introdurre i lavori, ha proposto usando la metafora delle monete dell’euro: monete che hanno una faccia uguale per tutti e una diversa per ogni Paese. Possiamo considerare l’associazionismo, il fatto che il sindacato deve il proprio potere rappresentativo ai suoi iscritti, come la faccia comune alle esperienze sindacali, a cominciare da quella italiana e tedesca? Può essere il sindacato come associazione l’esperienza comune sulla quale costruire forme e strumenti di rappresentanza sindacale su scala europea? E, venendo all’Italia, questa prospettiva è compatibile con alcune scelte organizzative, come le rappresentanze unitarie nei posti di lavoro o l’accentramento di responsabilità nei livelli confederali, fatte nel corso degli ultimi trenta-trentacinque anni?
Certamente il primo errore da non fare è quello di credere che le esperienze straniere, anche quando si tratti di best practices, possano essere trapiantate in un diverso contesto. E certamente non va sottovalutato il peso della storia nella caratterizzazione di un sistema sindacale come quello tedesco che, come ha ricordato Klaus Schmitz, consigliere per gli affari sociali presso l’ambasciata tedesca a Roma, deve le sue caratteristiche anche ad alcune circostanze politiche maturate nel corso degli anni ’50, come l’irrilevanza alla quale sono stati costretti i comunisti, che segnano un punto di forte differenza con l’Italia. D’altra parte, come ha osservato Edoardo Ales, professore di diritto del lavoro nell’Università di Cassino, la ripartizione di compiti fra l’associazione sindacale e la rappresentanza elettiva del consiglio d’azienda riposa anche sul fatto che nel modello giuridico tedesco si cerca di allontanare il conflitto dall’azienda, riservandolo alle organizzazioni sindacali e affidando funzioni strettamente partecipative agli organismi eletti all’interno dell’impresa. C’è quindi da chiedersi, in questo modello, che fine farebbero, ad esempio, i diritti sindacali previsti dallo Statuto dei lavoratori italiano allo scopo di impiantare la presenza organizzativa del sindacato nei luoghi di lavoro. E, d’altra parte, nel sistema tedesco esistono situazioni di fatto e di diritto, come l’unità sindacale o la possibilità – giuridicamente riconosciuta -dell’estensione erga omnes dei contratti collettivi, che cambiano parecchio il quadro rispetto all’esperienza italiana.
Nel modello tedesco c’è poi il problema, affrontato da Klaus Twesten, del sindacato tedesco degli alimentaristi Ngg, dei rapporti fra rappresentanza sindacale e rappresentanza elettiva, soprattutto quando, come in questo momento, gli imprenditori tendono a cercare il rapporto con l’organismo eletto per aggirare sia il sindacato che i contratti di categoria. Per questo è importante che l’organizzazione sindacale abbia la forza di imporre un rapporto con i consigli fatto di rispetto reciproco e distinzione dei ruoli, ma anche di controllo e di uso sindacale del canale elettivo; perché è solo su queste basi che la collaborazione fa la forza. Una collaborazione che ormai, come ha detto Twesten e come ha sottolineato Uliano Stendardi, segretario generale aggiunto della Fai e presidente della federazione europea dell’agroalimentare Effat, ha un ambito direttamente europeo, soprattutto nelle imprese dove sono stati attivati i Comitati aziendali europei, questa forma di rappresentanza dei lavoratori che è già un’esperienza comune, non solo fra Italia e Germania, e che molto deve, fra l’altro, all’esperienza tedesca. Una tendenza che, ha osservato Stendardi, appare destinata a svilupparsi ulteriormente e ha già cominciato a creare una nuova leva di sindacalisti, che sono già europei oltre che espressione del loro Paese di provenienza.
Ma se il trapianto diretto delle esperienze è impraticabile, e se il futuro è dell’Europa sindacale, il passato raccontato dal libro può dire qualcosa di interessante. Per gli studiosi di storia dei sindacati, come Aldo Carera, dell’Università Cattolica, e per il presente, come per Arsenio Carosi, segretario generale della Flaei, sindacato dei lavoratori elettrici della Cisl. Carera ha messo in evidenza come, mentre in Italia si sceglieva la via dell’unità attraverso le lotte, in Germania il manuale disegnava un sindacalista diverso, un “gentiluomo” come ha detto Carera citando un’espressione usata in quegli anni da Mario Romani nel quadro delle polemiche interne anche alla Cisl. Mentre Carosi, anche in vista del congresso della confederazione, ha preso spunto dal modello tedesco per porre alla Cisl alcune domande sulle scelte fatte (come le rappresentanze in comune con gli altri sindacati e l’orizzontalizzazione dell’organizzazione interna) e sulla necessità di rivederle, se si vuole essere associazione.
Ma sarebbe semplicistico, ha avvertito Michele Colasanto, presidente della fondazione Giulio Pastore, ridurre il dibattito al solo aspetto dell’associazione; non solo perché il sindacato è anche “istituzione”, in senso sociologico (ad esempio, quando contratta stabilisce delle regole che hanno una rilevanza che va al di là del fatto associativo), ma anche perché la questione rappresentanza non si riduce al posto di lavoro ma pone il problema del rapporto fra sindacato e modello di democrazia. Un modello di democrazia che deve essere pluralista, valorizzando la partecipazione dei corpi intermedi; e che ha fra le sue premesse, ha detto Colasanto, la libertà dell’adesione al sindacato, cioè la responsabilità personale del lavoratore, e la natura di esperienza morale del sindacato stesso.
D’altra parte, come ha osservato in conclusione Sergio Betti, segretario confederale della Cisl, l’associazionismo deve poter funzionare fin dai posti di lavoro, perché è iscrivendosi al sindacato che il lavoratore conquista la possibilità di avere voce in capitolo. Per la Cisl, questo vuol dire attivare le Sas, le sezioni sindacali aziendali che sono per statuto la base dell’organizzazione; ma significa anche dover fare i conti con altre tendenze, ad esempio le proposte di legge che cercano di sfruttare il problema della necessaria sintesi della complessità sindacale per imporre forme rappresentative che negano il principio associativo. Leggi che, come mostra anche l’esempio del pubblico impiego, possono al massimo fissare i criteri per l’applicazione del contratto ma non possono risolvere il problema di dare voce al lavoratore attraverso la libera adesione al sindacato.
[1] Giovanni Graziani (a cura di), La strada dell’associazione. L’attività dei fiduciari sindacali dell’Ig Metall. Ristampa anastatica dell’edizione 1974, Agrilavoro, 2004, pp. 71 + XXXII, eur. 15,00.



























