di Paolo Pirani, segretario confederale Uil
La questione decisiva riguarda direttamente tutte le articolazioni politiche e sociali, dalle istituzioni ai grandi soggetti collettivi. Essa è riconducibile alla domanda: come combattere in maniera efficace e possibilmente rapida il costante declino del Paese? Oggi, nessuno (quasi) nega che la crisi italiana abbia assunto caratteristiche preoccupanti e dimensioni tali da coinvolgere l’insieme dell’apparato produttivo.
Ed è altresì vero che il groviglio di problemi, in cui si dibatte pericolosamente l’industria italiana ha una datazione lontana, che risale ad almeno un decennio fa, in concomitanza con l’esplosione della globalizzazione e la parallela dissoluzione (o comunque del drastico ridimensionamento) di politiche difensive su scala nazionale
E’ lecito domandarsi, tuttavia, se nell’ultimo quadriennio l’azione del Governo sia stata all’altezza delle nuove sfide e se abbia agito per affrontare e rimuovere le cause all’origine del declino italiano. Un’analisi oggettiva, senza pregiudizi e priva di logiche di appartenenza, non può non convenire che purtroppo nell’ultimo periodo non solo non si sono sciolti i nodi irrisolti dello sviluppo, ma i divari e le dicotomie già preesistenti sono aumentati ed il già fragile tessuto delle relazioni industriali ha subito lacerazioni profonde. Le vicende sono note ed è superfluo rammentarle. Va osservato, però, che a fronte di una situazione complessa, che avrebbe richiesto semmai capacità di coesione, di “fare sistema”, l’iniziativa del Governo ha avuto un segno diametralmente opposto: sordo alle istanze provenienti dall’associazionismo imprenditoriale e sindacale, prigioniero dell’illusione plebiscitaria
E’ necessario aver chiaro tutto ciò, altrimenti si rischiano proiezioni velleitarie, volontaristiche e autoreferenziali. In primo luogo, per l’ovvio e banale motivo che il sistema di relazioni industriali non è avulso dal contesto politico generale. La storia delle relazioni industriali è segnata da accordi triangolari, che oltre alle parti sociali -organizzazioni sindacali e rappresentanze delle imprese – ha avuto come coautore l’Esecutivo. Infatti, decisioni concernenti la struttura del salario, la fiscalità per le imprese, il cuneo fiscale, prezzi e tariffe non possono essere assunte senza supporto legislativo. Infine, non va mai dimenticato che il Governo è al tempo stesso datore di lavoro e quindi non solo sarebbe auspicabile, ma è assolutamente necessario che il sistema di regole sia uniforme e non differenziato per l’insieme dei lavoratori.
Al momento, in questo scorcio di legislatura, ormai prossima all’apertura della campagna elettorale, si può essere credibilmente scettici nell’ipotizzare che l’attuale governo si incammini verso questa direzione. Ciò significa non fare nulla? Rimandare tutto ad un futuro (politicamente) diverso ed attendere che le nubi si diradino e che torni a splendere il sole della concertazione? Ovviamente no. Anche perché, se ciò accadesse, si dimostrerebbe la mancanza di autonomia dei soggetti sociali e la loro subordinazione dal quadro politico. Inoltre, l’inazione o il rinvio sono lussi che il Paese, le imprese, i lavoratori non possono permettersi. Serve, quindi, realismo e pragmatismo. Ciò vuol dire partire da quello che è nella piena disponibilità delle parti sociali; vuol dire riannodare le fila di un ragionamento condiviso e concertativo che abbia per finalità la riduzione della conflittualità, l’aumento del tasso di partecipazione dei lavoratori alle decisioni delle aziende, e stabilire nuove regole in materia di democrazia sindacale.
Proviamo allora a precisare meglio le aree di criticità delle relazioni sindacali e da individuare i possibili approdi. E’ indubbio, tanto da essere facilmente dimostrabile, che i primi anni di applicazione dell’accordo di luglio 1993 hanno fatto registrare un ottimo livello di tenuta. Questa fase è stata superata, tanto che assistiamo a contratti scaduti da lungo tempo, che peraltro non hanno prospettive di rinnovo nel breve periodo, e ad un oggettivo innalzamento della conflittualità. Da dove ha origine questo stato di cose? Dall’articolazione contrattuale suddivisa in livello nazionale ed in quello decentrato? Oppure in una ripresa generalizzata del massimalismo sindacale? Non più plausibile, magari, l’ipotesi che stabilire tetti di inflazione programmata non condivisi e non credibili contribuisca ad innescare un pericoloso processo di delegittimazione reciproca, che finisce per essere il brodo di coltura di tutti gli oltranzismi?
Il tema della flessibilità, madre di tutte le battaglie politiche e sindacali degli ultimi anni: non è forse il caso di depurarla da tutte le tossine ideologiche, profuse a piene mani dall’Esecutivo attuale, e ricondurla nell’alveo naturale di risorsa aggiuntiva per le imprese? Quando la flessibilità acquista una centralità innaturale non è forse lecito il sospetto che serva da comodo paravento per occultare debolezze strutturali, spostando l’asse della competizione esclusivamente sul versante del costo del lavoro? Ricondurre queste ed altre questioni (ad esempio l’esercizio della democrazia sindacale per l’approvazione delle piattaforme e per la validazione degli esiti contrattuali) ad una serrata trattativa negoziale forse non sarà sufficiente ai fini di un patto costituente delle relazioni sindacali in Italia. Sicuramente, affrontarle e risolverle contribuirebbe a migliorare il clima dei rapporti tra le parti sociali su obiettivi comuni: per il nostro Paese, soprattutto in questa fase, non è poco.