Aris Accornero – Ordinario di Sociologia industriale all’Università di Roma La Sapienza
La morte di Gianni Agnelli è stata seguita da decisioni familiari e da una partecipazione popolare che hanno segnato una svolta nella grave crisi della Fiat. Gli osservatori hanno infatti giudicato positivamente il mandato morale che Umberto Agnelli ha ricevuto per un rinnovato impegno nella salvezza e nella ripresa dell’auto, anche perché ha riacceso le speranze dei lavoratori e cittadini che hanno voluto tributare un omaggio alla memoria dell’Avvocato, e di molti altri in tutta Italia. Il futuro del maggiore gruppo italiano è adesso nelle mani di tre grandi protagonisti: la famiglia, le banche, la General Motors. L’eventualità di interventi esterni con l’ingresso di altri partner, privati o pubblici, sembra oggi meno probabile di ieri, mentre non è convincente l’ipotesi che si debba salvare la Fiat per salvare l’auto. Il problema infatti è come salvare l’auto per salvare la Fiat stessa: qui sta il nodo, visto che appena un terzo degli italiani acquista modelli nazionali, contro due terzi di francesi e tedeschi.
Questo spiega un pregiudizio presentato in questi mesi come una accusa: l’abbandono dell’auto. Non il semplice abbandono, cui del resto pareva preludere l’intesa Fiat-Gm, ma la ‘strategia dell’abbandono’, sostenuta anche da un apposito fascicolo della Fiom, che poggia su un processo alle intenzioni. La prova capitale sarebbe la fuoriuscita di Vittorio Ghidella benché, dopo quella lontana vicenda, la Fiat abbia deciso di realizzare la colossale intrapresa di Melfi, evidentemente motivata da ragioni opposte, e di investire parecchio sul comparto automotive, in vari Paesi e con esiti diversi.
L’abbandono è un’accusa che da un lato esorcizza ma dall’altro rivela qual è il focus dell’attenzione pubblica sull’intera vicenda: il radicamento automobilistico dell’azienda torinese. Nelle percezioni collettive la FIAT è l’industria dell’automobile. Questa identità di carmaker si è rafforzata dopo che il gruppo è diventato l’unico produttore nazionale e che questo monopolio è stato protetto anche dalla temibile concorrenza giapponese. L’identificazione fra Fiat e auto è stata del resto il fulcro di tutte le celebrazioni del centenario. Orbene, questa identificazione della Fiat con l’auto e dell’auto con la Fiat non è una regalia fatta dagli italiani all’azienda di Torino o alla dinastia degli Agnelli. E’ un’arma a doppio taglio e infatti costa cara. Di fronte all’erosione delle quote sul mercato interno, tutti dicono: dovrebbero almeno sapere come si fanno le automobili, e invece… Questo spiega l’imperiosa richiesta alla dinastia Agnelli di investire più quattrini nell’auto, e di ridare finalmente un equilibrio al rapporto con il management, tormentato fin dalla prematura morte di Edoardo, il secondogenito del senatore.
La sventurata saga degli Agnelli non può dare ragione del fatto che ai dipendenti e ai sindacati non era stato detto quasi nulla, e comunque nulla di schietto. (Con una eccezione: il franco intervento svolto dal responsabile di Fiat Auto, davanti a un allarmato convegno dei Ds sulla crisi aziendale). In tempi di eccedenza produttiva e di esuberi occupazionali era indispensabile curare al massimo la comunicazione diretta con il mondo del lavoro. Invece le cronache segnalano soltanto il raggiungimento di intese separate, un po’ schizofreniche, prima sull’intensificazione dei ritmi e poi sulla cassa integrazione; esiti tali da vanificare talune aperture della sinistra sulla crisi e da dare fiato all’inesausta intransigenza della Fiom.
Quando sono iniziate le trattative si è visto che la tastiera degli interventi proposti da ambo le parti era quanto mai misera. Alla povertà delle proposte aziendali corrispondeva il ritualismo delle richieste sindacali, e tutto si riassumeva nello strumento più stagionato: la cassa integrazione, che divideva i sindacati dall’azienda soltanto perché agli inizi questa non avrebbe voluto accettare il criterio della rotazione. Niente contratti di solidarietà né manovre sugli orari tipo Volkswagen: una soluzione che negli anni ’90 aveva salvato la casa di Wolfsburg senza danneggiare il paese, e anzi creando coesione sociale, e che in Italia avrebbe potuto riservare spazi di sussidiarietà all’azione pubblica locale.
Di fronte alla modestia degli ammortizzatori sociali messi sul tappeto dalle parti, spicca soltanto la richiesta sindacale di discutere un piano industriale volto alla riduzione della sovra-capacità produttiva e delle ridondanze di mano d’opera, sul quale il management aveva ben poca libertà di manovra dati i vincoli posti dalle banche creditrici e dalla General Motors stessa. Se si paragona il negoziato del 2002 e il ruolo che in esso ha avuto il piano industriale, a quello del 1980 e al ruolo giocato allora dal ‘Piano auto’, su cui Cgil-Cisl-Uil confidavano, emerge un calo di tono disperante. Due decenni di confronti non hanno mutato gli approcci dei partner alle crisi aziendali, alle ristrutturazioni industriali, e perfino al mercato del lavoro: da una parte c’è la sopravvivenza dell’azienda, dall’altra la salvaguardia dell’occupazione.
Il massimo distacco fra capitale e lavoro è venuto dopo, quando l’accordo sul piano industriale non è stato raggiunto fra l’azienda, i sindacati e il Governo bensì fra l’azienda e il Governo senza i sindacati: epitaffio di un cammino inguaribilmente fordista, e che ripropone la fatidica coppia: aziendalismo o lotta di classe. In pochi mesi sono stati bruciati anni di onesta cooperazione. Del resto, è il massimo che alla Fiat la cultura dell’azienda e dei sindacati, ambedue avare di stimoli e di risorse partecipative, abbiano saputo esprimere nei rapporti reciproci. La sfiducia ha lasciato irrisolto il nodo delle relazioni industriali, come si constata ormai da alcuni anni in occasione delle vertenze per il rinnovo degli accordi integrativi aziendali. Con l’aggravante che alla Fiat si praticano due sindacalismi i quali convivono fra continue tenzoni da cui nessuno dei due esce vincente, neppure il sindacato aziendale, e neanche l’azienda.
Due diverse culture sindacali continuano a contrapporsi, quella del conflitto e quella della cooperazione. La prima si richiama a inflessibili principi di classe aggiornati a un post-fordismo che le sembra peggio del fordismo, trovando qualche ascolto fra i giovani lavoratori temporanei. La seconda perora invano quella disponibilità strategica e quei sistemi di coinvolgimento che l’azienda continua a non offrire e per i quali le maestranze ben difficilmente scenderebbero in lotta. Sono due culture difficilmente conciliabili fra loro, ma il vero guaio è che finora sono risultate tutt’e due storicamente incompatibili con la cultura Fiat. E questo perché è mancato in Italia quell’humus riformista che forse avrebbe potuto ricondurle tutte al lavoro come ideale e come progetto. Soltanto una via partecipativa decisamente imboccata dall’impresa può riavvicinare culture così diverse. Ma quella via non è stata tentata. Lo si è visto proprio durante questa crisi, cruciale e forse fatale.