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Home - Approfondimenti - Analisi - Un mondo del lavoro a forma di clessidra

Un mondo del lavoro a forma di clessidra

19 Novembre 2003
in Analisi

Samuela Felicioni – Ricercatrice IpL

Il 10 novembre scorso il Dipartimento delle discipline storiche dell’Università di Bologna e la Fondazione Istituto per il Lavoro della Regione Emilia-Romagna hanno organizzato un convegno che aveva come tema “Precarietà del lavoro e società precaria nell’Europa contemporanea”. Tema attuale e di grande importanza culturale, una delle grandi sfide della contemporaneità che coinvolge la ricerca a tutti i livelli. Hanno partecipato professori universitari e ricercatori del mondo del lavoro, e proprio dallo spessore degli interventi è nata l’idea di raccoglierli in un testo che verrà pubblicato a breve.

Lo scenario di riferimento è stato illustrato da Luciano Gallino, che ha focalizzato l’analisi sulle cause della precarizzazione del lavoro. Egli evidenzia fra tutte il mutamento che la concezione dell’impresa ha vissuto a partire dagli anni ‘70. La concezione tecnologica e industriale ha ceduto il posto ad una concezione finanziaria di un’impresa il cui scopo primario è quello di creare valore per gli azionisti. Altri fattori concomitanti sembrano essere stati l’abbondanza del capitale, la concezione della new economy come qualcosa di totalmente differente dalla vecchia economia e la fine dell’età manageriale. Dagli anni ‘70, dunque, il processo si è rovesciato: la precarietà avanza attraverso il cosiddetto downsizing, e la nuova concezione dell’impresa passa attraverso un nuovo modello organizzativo che la vede sempre più “virtuale” nel tempo e nello spazio: distribuisce la sua attività attraverso contratti di subappalto e a breve termine, occupa pochi addetti nel Paese d’origine, molti nel resto del mondo. L’esempio della casa automobilistica Porsche, che produce più del 90% delle proprie auto attraverso piccole e medie imprese dislocate in tutto il territorio è solo uno dei tanti possibili che evidenziano come l’impresa inizi ad essere fatta di nodi, di istanti di attività, di contratti con aziende che ricevono commesse, ma con cui può rescindere il contratto in qualsiasi momento.
Le aziende che lavorano per l’impresa titolare in questa rete sono dunque aziende precarie,  ed a loro volta ricercano forze di lavoro il più flessibili possibile. Tra le forme che oggi la precarietà del lavoro assume, l’informalizzazione del lavoro è al primo posto. L’espressione “lavoro informale” era stata coniata circa 30 anni fa per indicare quella che doveva essere una fase intermedia e temporanea della modernizzazione, il passaggio dal lavoro svolto nei campi ad un lavoro più moderno all’interno dell’industria. Un processo di transizione che però non si è rivelato tale, poiché oggi abbiamo di fronte una informalizzazione diffusa delle forme di lavoro: su una forza lavoro di 2,7 miliardi di persone, il lavoro informale ne occupa circa 1,3 miliardi, in alcuni Paesi del Sud Est asiatico supera il 55%, mentre in Africa addirittura il 60%.
Forme di lavoro che si ritenevano transitorie stanno diventando sempre più stabili in una società in cui non esiste più la distinzione tra tempo di lavoro e tempo libero, non si distingue più fra settimana lavorativa e weekend. Tale nuovo modello di “società flessibile” viene talora presentato come un aspetto attraente della modernità e assume sempre più le sembianze dell’impresa: servizi di ogni genere divengono perennemente accessibili per far fronte alla moltitudine di bisogni: 24 ore su 24, 7 giorni su 7.
Di questa proposta riformista Gallino vuole mettere in luce i limiti riprendendo il concetto di integrazione sociale di cui hanno tanto parlato anche Durkheim, Weber e Parsons. Affinché una società possa mantenere nel tempo un tasso di integrazione sufficiente occorrono dei prerequisiti: il tempo e la misura di integrazione sociale. Come ricorda il sociologo Sennett, il rituale è la chimica che sta alla base della società, ma nella società flessibile la ritualità diventa una pratica impossibile. L’altro aspetto attiene uno tra i principali esiti della flessibilità, la forte polarizzazione della massa dei lavoratori verso l’alto e verso il basso, in un’immaginaria forma a clessidra che assumerebbe il mercato del lavoro. La parte inferiore occupata da quei lavoratori che fluttuano dentro e fuori le imprese titolari, perennemente legati al lavoro temporaneo e a lavori di basso profilo qualitativo; la parte superiore da quei lavoratori con contratti di lavoro standard, professionalizzati e secolarizzati. Dunque la società flessibile, e con essa il lavoro flessibile, comporta costi umani, sociali e che investono direttamente l’integrazione sociale e la politica. Per questo i rischi dovrebbero essere più attentamente ponderati. L’Organizzazione mondiale della sanità afferma infatti che la condizione della vita lavorativa è esposta sempre più a stress, a problemi fisici, e condizioni di lavoro precario incidono fortemente sul verificarsi degli incidenti. 
In uno scenario così delineato, l’approvazione della legge 30/03 di riforma del mercato del lavoro determina la perdita della centralità del contratto di lavoro, inserendolo come semplice meccanismo in un più ampio sistema commerciale; definisce la definitiva frammentazione del lavoratore subordinato; e paradossalmente, ripropone la secca alternativa tra lavoro autonomo e lavoro subordinato. L’affermazione che la legge 30 abbia semplicemente portato a diritto una realtà frammentata già esistente non è soddisfacente; il diritto, infatti, non ha esclusivamente il compito di fotografare la realtà, ma anche quello di governare i suoi processi.


Riprendendo l’esempio della clessidra, nella quale donne ed immigrati occupano la parte inferiore e toccando il tema dei lavori atipici, Francesca Sbordone ha affrontato il tema del mercato del lavoro femminile. I dati Istat confermano che gli incrementi occupazionali registrati negli ultimi anni interessano in misura maggiore le donne e si realizzano attraverso forme di contratto non standard (a tempo, part time, ecc.). E’ noto che il modello di presenza delle donne nel mercato del lavoro è discontinuo ed intermittente poiché in fasi precise della loro vita escono e poi vi rientrano. Questo modello, da un lato, mal si concilia con quella domanda di lavoro stabile e continuativo (il nocciolo duro delle aziende, costituito da lavoratori stabili e altamente professionalizzati), dall’altro invece si sposa perfettamente con una domanda aziendale di lavoro a tempo, flessibile e discontinuo.
Sono proprio queste dinamiche che spiegano le difficoltà di inserimento e di permanenza delle donne nel mercato del lavoro, basti pensare che in Emilia-Romagna le persone alla ricerca di un’occupazione da più di un anno sono soprattutto donne, uscite dal mercato del lavoro per esigenze di cura e che tentano di rientrarvi senza incontrare le occasioni e le opportunità giuste. Ad illustrare tali difficoltà sono stati citati alcuni lavori di ricerca, in particolare un’indagine realizzata attraverso interviste a giovani tra i 16 e i 32 anni in provincia di Reggio Emilia. Dalla ricerca è emerso il valore puramente strumentale che i giovani attribuiscono al lavoro, cosa tanto più vera per le ragazze che per i ragazzi, e l’incertezza nei confronti del mercato del lavoro.
In una provincia quasi a piena occupazione emerge dunque una realtà sconcertante: soprattutto le ragazze si rifugiano in lavori a tempo indeterminato che non rientrano nella loro sfera di interessi,pur di non sperimentare la precarietà del lavoro. Una seconda indagine, svolta su un campione di donne dipendenti della pubblica amministrazione, ha invece mostrato la difficoltà che esse incontrano quando si trovano all’interno del mercato del lavoro. Dall’indagine è emerso che, pur lavorando a part-time, la maggior parte lamenta la difficoltà a conciliare i tempi di lavoro con quelli di cura, a dimostrazione del fatto che spesso gli orari e le regole dell’organizzazione lavorativa non coincidono con quelli che regolano la vita esterna, a cominciare dagli orari dei servizi, dei trasporti e della città in generale.
Da qui nasce la domanda se sia possibile, anche in linea di principio, una totale separatezza tra la dimensione della vita lavorativa e le altre dimensioni in cui vivono gli individui. Francesco Garibaldo ha posto l’interrogativo partendo dal presupposto che ormai molte ricerche empiriche, in Europa, testimoniano una generale condizione di sofferenza sociale. Ogni essere umano ha delle esigenze elementari per una sua condizione di “benessere generale” e anche gli avvenimenti sociali possono essere visti in quest’ottica. La psicodinamica sostiene che, quando un’organizzazione non risponde positivamente ai bisogni di una persona “normale”, l’individuo tende ad adattarsi ma, se questo processo non risponde alle sue esigenze di base, egli attua uno pseudo adattamento. Se l’essere umano viene considerato come un insieme di sfere di vita, nel momento in cui questi elementi vengono compromessi, il delicato equilibrio viene messo in discussione e si verifica quella che Sennett definisce “corrosione del carattere”. E’ dunque difficile ipotizzare che si possano disaccorpare le diverse parti, dell’esistenza umana.


Del tema dell’immigrazione hanno parlato Mottura e Rinaldini, citando una recente ricerca sul lavoro degli stranieri in Emilia-Romagna. La ricerca ha rivelato risultati sorprendenti. Tutti i lavoratori intervistati sono sembrati ben collocati: più dell’80% assunti con contratti a tempo determinato e in un periodo di 5 anni sono stati confermati a tempo indeterminato. Emerge dunque che lo stereotipo dell’immigrato che ricopre solo ruoli marginali è oggi molto più parziale di una volta. Ciò non significa che l’immigrato non sia sottoposto a processi di precarizzazione, ma solo che tale rapporto si esplicita secondo un meccanismo diverso.

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