di Franca Alacevich – Docente di sociologia del lavoro e relazioni industriali
Resta ancora molto aperta sul tavolo della discussione, in questo periodo, la questione della riforma del sistema di contrattazione collettiva, proposta con diverse soluzioni da Governo, imprenditori e sindacati. E la sua soluzione non pare né facile né vicina nel tempo, visto che le parti sono fortemente ancorate alle loro diverse posizioni.
Recentemente, tuttavia, il dibattito si è spostato sulla questione – in sé ben più complessa e impegnativa – delle regole generali di relazioni industriali. L’intervento di Alberto Bombassei, vicepresidente di Confindustria per le relazioni industriali e gli affari sociali, all’assemblea generale di Federmeccanica il 30 giugno scorso ne è stato, ad un tempo, il promotore e il catalizzatore di un più diffuso, seppur non ben definito, sentire.
Alberto Bombassei non ha esplicitamente legato le due questioni. La sua proposta, anzi, verte su quattro aspetti specifici, le cui soluzioni possono trovarsi in ogni tipo di assetto del sistema contrattuale: le regole per lo sciopero, le clausole di tregua sindacale, il coordinamento tra i livelli negoziali (nelle sue parole, “la capacità dei rappresentanti nazionali di far rispettare nel territorio i contenuti dei contratti collettivi”), e le procedure di conciliazione e arbitrato.
Tuttavia, un ambizioso “nuovo patto costituzionale” fra le parti sociali, volto a adeguare le relazioni industriali alle nuove condizioni e alle nuove sfide, non può prescindere dall’affrontare anche il nodo dell’assetto contrattuale. Troppi ritardi nel rinnovo dei contratti nazionali, troppi contrasti tra le proposte avanzate da sindacati e imprese nelle recenti vertenze, segnalano che un nuovo patto generale sulle relazioni sindacali non potrà saltare questo passaggio. Anche se si volesse tentare, questi problemi influenzerebbero comunque la discussione: seppur non esplicitamente, impronterebbero le posizioni degli attori, ne condizionerebbero gli orientamenti, e le disponibilità a trattare. Anche se si raggiungesse un accordo, la mancata soluzione di questi problemi ne minerebbe l’efficacia, traducendosi successivamente, nella pratica, in comportamenti non conformi. La proposta di Alberto Bombassei, infatti, non nasconde, ed anzi dichiara esplicitamente, che le imprese nell’attuale congiuntura hanno bisogno di avere “mano più libera” sul piano organizzativo interno e nella regolazione del lavoro. La ricerca di ripristinare un circolo virtuoso in materia di competitività richiede – nelle parole di Bombassei – di “concentrare tutti gli sforzi sull’aumento dell’efficienza delle imprese e del sistema nel suo complesso… di adottare rapidamente anche nei nostri contratti di settore, soluzioni di flessibilità degli orari che possano essere utilizzate da parte di tutte le imprese senza ulteriori negoziazioni, confronti, scambi, con tutto il carico di conflittualità che questi comportano”.
Le esigenze delle imprese in questo difficile momento sono certamente da prendere in seria considerazione. Si può anche condividere il fatto che l’attuale assetto delle relazioni industriali non favorisca un’efficace risoluzione dei problemi e rischi spesso di produrre un “carico di conflittualità” eccessivo. Tuttavia, se di nuove regole v’è bisogno – e personalmente credo ve ne sia bisogno – non credo ci si possa limitare a nuove regole di “raffreddamento” del conflitto. Nuove regole sul sistema di contrattazione collettiva, un nuovo patto costitutivo di un vero e proprio “sistema articolato” di relazioni industriali – coerente, con chiara definizione delle competenze dei vari livelli, e in cui le procedure siano accuratamente definite e condivise – metterebbe al riparo dagli eccessi di conflittualità quanto, se non meglio, di un patto sulle regole per lo sciopero, la conciliazione e l’arbitrato, la tregua sindacale. Leggo, in fondo, questo richiamo implicito nel quarto aspetto citato da Bombassei, quello relativo al coordinamento tra i livelli negoziali (nel mio linguaggio) o alla “capacità dei rappresentanti nazionali di far rispettare nel territorio i contenuti dei contratti collettivi” (nelle sue parole). Ma vi è un secondo aspetto che vorrei sottolineare. Il patto proposto da Alberto Bombassei è un patto “tra impresa, lavoratori e sindacati”. Pur nella difficoltà di conciliare le diverse posizioni dei principali attori collettivi (e delle maggiori confederazioni sindacali, anzitutto), un’intesa a questo livello appare oggi forse più facilmente perseguibile. Tuttavia, le relazioni sindacali sono un’arena in cui giocano un ruolo fondamentale, e ineliminabile, anche altri protagonisti. Un patto con le ambizioni di rinnovamento delle regole di relazioni industriali – quale quello proposto – non può fare a meno del “terzo attore”: il Governo centrale, in primis, e oggi sempre più anche le amministrazioni regionali e locali (un “quarto” attore?).
Lo stesso vicepresidente di Confindustria, nella sua relazione, sottolinea come uno dei problemi cruciali da affrontare sia quello relativo al costo del lavoro, e soprattutto al livello elevato dei contributi sociali. Tra oneri impropri (assegni familiari, prestazioni di maternità e paternità, ecc.), oneri sociali che gravano sul lavoro, e vincoli aggiuntivi sul lavoro straordinario – sostiene – in Italia la pressione fiscale e contributiva sulle imprese è troppo elevata (“Fatta pari a 100 la retribuzione netta, un’impresa italiana sostiene un costo di 185, contro 159 in Spagna, 145 nel Regno Unito, 133 in Irlanda”).
Come si possono “rifondare” le relazioni industriali se non si affronta, insieme, anche questo nodo? Almeno con l’individuazione di un percorso, magari di lungo periodo, da seguire coerentemente. La questione salariale, e del potere d’acquisto dei salari, è stata il filo conduttore degli scontri, anche aspri, degli ultimi anni – e non soltanto nel nostro Paese. Riportare le relazioni industriali in un clima di confronto fruttuoso, evitando lo scontro e il gioco a somma zero tra imprese e lavoro, non può eludere il tema del costo del lavoro (per le imprese) e del costo della vita e del potere d’acquisto (per i lavoratori). Solo un progetto condiviso saldamente intrapreso può mitigarne gli effetti negativi sul clima del confronto.
Da questo punto di vista, la proposta di un patto costituzionale delle relazioni industriali va allargata. Il “nuovo patto” deve vedere coinvolto anche il terzo attore. Altrimenti, ogni soluzione che si prefigurasse non potrebbe essere che di basso profilo, fragile e esposta ai venti turbolenti delle politiche macroeconomiche, fiscali e monetarie. Altrimenti, gli orientamenti e i comportamenti degli attori – durante la negoziazione del patto, e, dopo, nella sua implementazione – non potrebbero essere che di carattere “difensivo”, alla ricerca di massimizzare i vantaggi e minimizzare gli svantaggi per la propria parte sociale. Il negoziato, dunque, assumerebbe un andamento segnato più dall’antagonismo, o comunque la forma di un gioco al ribasso, a somma zero – traducendosi poi in un gioco a somma negativa per tutti i partecipanti.
Mi rendo conto che queste riflessioni complicano disperatamente il quadro. Ai punti segnalati vanno aggiunti il sistema contrattuale e il costo del lavoro – potere d’acquisto dei salari. Ai soggetti indicati va aggiunto il terzo attore. Né vorrei inducessero a sottovalutare la proposta di Alberto Bombassei, che anzi considero utile e su cui lavorare seriamente. Si tratta, semmai, di “giocare al rialzo”. Le dure esigenze dettate dalla grave crisi in cui versano il nostro Paese e molte delle nostre imprese impongono, e consentono al tempo stesso, un progetto di più ampio respiro e più ambizioso ancora. D’altra parte, le “emergenze” condivise sono sempre state una delle più efficaci spinte per il dialogo sociale (come ha segnalato Marino Regini, 2003). Sono passati più di dieci anni dalla tappa importante del protocollo del 1993. Nell’arena delle relazioni industriali sanno tutti che i cambiamenti devono essere più rapidi, e frequenti, visti i cambiamenti che avvengono nell’economia, nei mercati, nelle tecnologie e, dunque, nelle imprese. Nel protocollo del 1993 questa considerazione aveva suggerito l’istituzione di una commissione e di una procedura per la sua revisione, che tuttavia non hanno portato a risultati significativi nonostante il documento finale della Commissione Giugni (1997) fosse ricco di stimoli e di suggerimenti.
Raccogliere l’invito di Confindustria è opportuno e necessario. Dedicare qualche tempo preliminare a definirne i contorni non sarebbe certamente tempo perso.
Commissione Giugni (1997), Commissione per la verifica del Protocollo del 23 luglio 1993. Relazione finale, mimeo; ora in Economia & Lavoro, n. 3, pp. 99-116, 1998.
Regini M. (2003), I mutamenti nella regolazione del lavoro e il resistibile declino dei sindacati europei, in Stato e Mercato, n. 67, pp. 83-107.