Dopo undici anni di intenso lavoro, dopo innumerevoli tentativi andati a vuoto, il modello di contrattazione è stato finalmente modificato. Era stata la Commissione Giugni all’inizio del 1998 a chiedere un intervento sul sistema definito nel 1993. Non c’è da stupirsi molto di questo ritardo, perché per mettere a punto quell’accordo erano stati necessari dodici anni, dato che i primi contatti erano partiti nel 1981, subito dopo la sconfitta alla Fiat del 1980 (e forse vale ricordare che il primo grande accordo fu quello voluto da Enzo Scotti, firmato giusto il 22 gennaio del 1983). La differenza fondamentale tra le due fattispecie è che l’accordo dei nostri giorni nasce monco, senza la firma della Cgil. E la Cgil è sempre il primo sindacato italiano.
Questa carenza getta una luce tutta diversa sull’accordo e sulle possibili conseguenze che ne deriveranno. Non ci sono dubbi che l’accordo servisse e che esso vada nella direzione giusta. Le difficoltà, non solo dei metalmeccanici, a rinnovare i contratti ne sono testimonianza importante. Soffrivano molte categorie, ultimamente la lista si era anche allargata, a categorie che per lo più non avevano incontrato difficoltà in passato. Si potrebbe perfino rischiare di affermare che erano meno i settori dove restavano relazioni industriali positive, forse più per volontà degli attori che per ragione dei fatti.
Era necessario dunque intervenire ed è stata giusta la scelta di puntare sulla contrattazione di secondo livello, perché è in azienda, o sul territorio, ma questo ragionamento è più complesso, che si generano le occasioni di profitto e quindi di divisione del reddito. In tempi di magra il sindacato deve andare a scegliersi i posti dove sia possibile chiedere degli aumenti salariali e quindi ben venga la contrattazione aziendale.
Ma soprattutto è stato cambiato il sistema retributivo. Quello legato all’inflazione programmata era stato molto utile nei tempi di alta inflazione, perché la politica d’anticipo permetteva di regolare l’inflazione attesa, quindi la dinamica del costo della vita. Ma era un sistema che dipendeva dalla politica, perché era il governo che definiva l’inflazione programmata e quindi andava bene fino al momento in cui c’era intesa tra esecutivo e sindacati, come si è potuto verificare quando a Palazzo Chigi c’è stato un governo di centrodestra, che fissava livelli inflattivi sempre molto inferiori a quanto poi effettivamente accadeva.
Molto meglio il sistema messo a punto adesso, che è più obiettivo. Inoltre, e non è cosa da poco, il recupero dell’eventuale scarto è previsto accada entro il triennio di validità dei contratti, almeno per i dipendenti privati, quindi il recupero del potere di acquisto dei salari è certo e veloce.
Il punto è che manca la firma della Cgil. E’ evidente che le regole di base dovrebbero essere accettate da tutti, perché altrimenti non si saprebbe più come comportarsi. La Cgil adesso ha due possibilità, oltre a quella di aderire all’accordo, ipotesi però al momento priva di qualsiasi concretezza: può accettare queste regole e adeguarsi a contratti triennali o invece continuare a comportarsi come se quell’accordo non ci fosse e andare per la propria strada. In questo secondo caso le relazioni industriali andrebbero in tilt o comunque i problemi si moltiplicherebbero e questo non aiuterebbe nessuno. Ma anche la prima strada sembra in salita, perché la Cgil non sembra intenzionata ad aderire, anche solo nei fatti, a ipotesi nate senza il suo avallo. Le relazioni industriali sono quindi destinate a un peggioramento progressivo.
Ma potrebbero esserci problemi anche per la Cgil. In realtà la sua decisione di non aderire all’accordo sembra avere un carattere prettamente politico e la decisione di andare a una serie di scioperi e manifestazioni di protesta conferma questa sensazione. Questo però comporta, oltre a una complicazione dei rapporti, anche un pericolo per la stessa Cgil. Perché è emerso con grande chiarezza, lo ha testimoniato Paolo Feltrin nel saggio che ha scritto per l’Annuario del lavoro 2008, che il voto politico dei lavoratori e le loro scelte sindacali divergono molto sensibilmente. L’operaio del Nord vota senza problemi la Lega anche con la tessera della Cgil in tasca e viceversa. Si compiono precise scelte politiche, ma poi si preferisce il sindacato che si pensa sia in grado di difendere al meglio gli interessi dei lavoratori. Ma se le scelte del sindacato assumono valore politico, se gli atti importanti sono dettati non dal gioco degli interessi materiali dei lavoratori, ma dalla politica, allora questa disgiunzione non ha più luogo e se interviene un bipolarismo sindacale, valgono le stesse regole che per la politica. La Cgil potrebbe accusare un calo dei propri consensi e soprattutto averne un contraccolpo in termini di autorevolezza ed efficacia. E questo sarebbe un danno per tutto il paese.
(In Documentazione il testo dell’accordo separato)
23 gennaio 2009
Massimo Mascini
























