Tiziano Treu – Ordinario di Diritto del Lavoro all’Università Cattolica di Milano
Dopo l’approvazione del decreto attuativo della riforma del mercato del lavoro, è giunto il momento di riprendere il dibattito sulla prospettiva dell’elaborazione di uno Statuto dei lavori, che dovrebbe consentire di aggiornare le tutele esistenti al continuo mutamento del lavoro e dei lavori.
La legge n. 30 del 2003 non risulta indifferente al tema, ma anzi crea complicazioni sulla strada che dovrebbe portare alla definizione dello Statuto. Essa, infatti, tenta di adeguare l’assetto normativo del diritto del lavoro al mutamento in atto, moltiplicando le tipologie contrattuali utilizzabili per lo svolgimento di prestazioni di lavoro. In tal modo segue una direzione opposta rispetto a quella suggerita dalla necessità di creare un sistema di norme flessibili ed adattabili alle rapide trasformazioni del lavoro che caratterizzano il nostro tempo. Il tentativo di far rientrare in una pluralità di modelli contrattuali la miriade di forme di attività espresse dall’attuale organizzazione economica risulta poco convincente in quanto, piuttosto che superare il modello tradizionale, incentrato sul rapporto di lavoro subordinato, ne amplifica i limiti, creando tante discipline rigide per quanti sono i nuovi schemi contrattuali.
Per dare risposte efficaci alla necessità di coniugare nuove tutele ai nuovi lavori dobbiamo invece tenere presente che le tecniche di regolazione tradizionali del diritto del lavoro, costruite sul modello prevalente del lavoro subordinato nella grande fabbrica, devono subire un profondo riorientamento. Spesso le aziende, per ragioni di flessibilità, utilizzano la propria manodopera entro schemi nuovi e diversi da quelli tradizionali; per proteggere le realtà delle nuove strutture produttive, del lavoro autonomo e dei lavori subordinati flessibili, servono nuove tecniche di regolazione.
E’ quindi essenziale riprendere il filo del discorso in un’ottica di revisione ampia della materia, cercando di individuare strumenti che consentano di adeguare nel tempo la funzionalità di ciascun tipo di lavoro e il grado relativo di flessibilità (o rigidità), alla posizione effettiva delle parti e alla natura dei loro rapporti.
Chi scrive ha proposto (v. il disegno di legge denominato “Carta dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori”) di ridefinire le diverse forme di lavoro oggi esistenti in base a criteri aggiornati ai mutamenti in atto, e di ricondurle in tre grandi aree, distribuite su cerchi concentrici, partendo da una disciplina e da tutele di base comuni a tutti i tipi di lavoro, per procedere poi gradualmente verso normative e tutele differenziate, anche quanto alle fonti, dando rilievo non solo alla via legislativa ma anche attraverso il riconoscimento del valore della autonomia collettiva. Infatti, la continua trasformazione del diritto del lavoro enfatizza il rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale, mentre riduce quello tra contratto e legge.
Circa i contenuti e le tipologie di destinatari che dovrebbero caratterizzare le diverse aree di tutela, abbiamo individuato alcune linee di fondo.
Un primo nucleo di diritti e tutele, presidiato dalla imperatività della legge e del contratto collettivo, dovrebbe essere riconosciuto a tutti i tipi di lavoro, compreso il lavoro autonomo. Tra i diritti e le tutele ricompresi in quest’area possiamo includere i diritti personali di derivazione costituzionale concernenti le libertà politiche, civili e sindacali (il principio di non discriminazione, libertà di organizzarsi, di negoziare collettivamente ecc.), e quelli, con un ambito di applicazione più esteso, concernenti la protezione di alcuni diritti fondamentali della persona, come la tutela della salute e della sicurezza in quanto svolte in ambienti di lavoro organizzati dal datore di lavoro o dal committente.
Accanto a questi diritti ne andrebbero previsti alcuni nuovi, come ad esempio il diritto alla riservatezza, il diritto alla tutela contro le molestie sessuali, il diritto alla maternità, alla paternità, alla cura personale, alla conciliazione fra tempi di vita e tempi di lavoro.
Inoltre, sempre nell’area destinata a tutti i lavori, dovrà essere presa in considerazione la necessità di prevedere tutele non solo nel rapporto e sul posto di lavoro, ma anche sul mercato del lavoro. Se si vuole tutelare i lavoratori, vecchi e nuovi, occorre farlo nelle diverse attività cui di volta in volta si dedicano, con politiche di sostegno sul mercato in cui operano; per questo va data importanza centrale alla fruibilità dei servizi all’impiego e alla formazione continua, che deve diventare un diritto individuale di tutti i lavoratori da esercitarsi anche individualmente.
Una seconda area di tutela, più circoscritta della precedente, dovrebbe riferirsi a tutte quelle forme di lavoro che in sede europea si è preso a definire “lavoro economicamente dipendente”, formula più pregnante e più intelligibile del nostro “lavoro parasubordinato”. Il lavoro economicamente dipendente è riconoscibile sulla base di una pluralità di indici, non tutti necessari in ciascuna fattispecie, che vanno dall’assenza di collaboratori, alla corrispondenza qualitativa al lavoro salariato, a lavorare per conto di un solo datore di lavoro, alla mancanza per i propri prodotti o servizi di un vero mercato.
Una parte di questi lavoratori è peraltro interessata dalle nuove norme introdotte dalla legge n. 30, la quale, con la disciplina del c.d. lavoro a progetto, tenta di introdurre alcune timide tutele. Tuttavia anche qui il legislatore si limita ad un intervento parziale, creando l’ennesima disciplina speciale che non può per sua natura ricomprendere la complessità dei nuovi lavori, introducendo peraltro una inutile rigidità con l’esclusione delle forme a tempo indeterminato.
Per i lavoratori “economicamente dipendenti” dovranno essere pensate tutele mirate a contrastare la precarietà dell’impiego, ma senza richiamare tutta la normativa tipica del lavoro subordinato, proprio perché i bisogni e le posizioni di rischio sono diversi.
Si può pensare all’estensione anche a questi lavoratori delle protezioni contro i rischi di sospensione involontaria dal lavoro (malattia, infortunio, maternità, congedi), opportunamente modulate, ed all’introduzione di forme specifiche di ammortizzatori sociali; questo è un presupposto essenziale per una flessibilità sostenibile, che consenta una maggiore mobilità occupazionale e renda meno traumatico il passaggio da una occupazione all’altra.
Per questi lavoratori dovranno inoltre essere previste garanzie per la salute e la sicurezza del lavoro, adattate tuttavia al carattere di un attività che è spesso slegata dal luogo fisico della fabbrica. In molti casi l’ambiente di lavoro si allarga al di fuori di uno spazio definito, fino a coincidere con l’ambiente in genere. Gli standard di sicurezza vanno dunque riconsiderati su questa scala più ampia.
La continuità del rapporto di lavoro va protetta, ma in modo diverso che nel caso di lavoro subordinato: si può pensare ad un diritto di preavviso in caso di interruzione se il rapporto è a tempo indeterminato, e ad un indennizzo se la interruzione è ingiustificata. Non è invece praticabile la reintegrazione dei lavoratori parasubordinati nel posto di lavoro, perché per questo tipo di prestazione il posto di lavoro non esiste o è sfuggente.
Queste tutele specifiche non dovrebbero ovviamente valere per i rapporti che mascherano un lavoro subordinato, i quali andrebbero tutelati a tutti gli effetti con la normativa del lavoro tipico; peraltro, per contrastare le frodi, è essenziale parificare i costi contributivi di questi lavori a quelli del lavoro dipendente.
La terza ed ultima area di tutela dovrebbe essere quella relativa al lavoro subordinato. Accanto al riconoscimento di alcuni diritti tradizionali come i diritti sindacali, sarà necessario aggiungere la previsione dei diritti di informazione e forme partecipative secondo le direttive europee, e rafforzare il diritto all’apprendimento continuo attraverso la definizione di modalità di anticipazione dei cambiamenti e di prevenzione dei loro effetti, la definizione di percorsi di carriera, la previsione di investimenti formativi a carico dell’impresa e dei lavoratori, la certificazione delle competenze acquisite e il loro riconoscimento a fini di crescita professionale.