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Il Diario del Lavoro

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Home - Approfondimenti - Analisi - Una strategia di sviluppo su più fronti

Una strategia di sviluppo su più fronti

26 Maggio 2003
in Analisi

Andrea Forni – Federica Scipioni – Ricercatori

Nell’ultimo anno in Italia si sono moltiplicate le voci preoccupate circa la situazione e le possibilità di sviluppo dei distretti industriali. Sono stati posti con più forza che negli anni precedenti alcuni interrogativi sullo sviluppo del paese, a partire dalle problematiche del sistema produttivo. In tale ottica si sono intersecati il tema dei distretti, dello sviluppo economico, del Mezzogiorno, del mercato del lavoro e delle alte professionalità; il tutto inquadrato nel contesto della globalizzazione.

 


Questi elementi si intersecano perché i distretti sono ormai quasi l’unico strumento organizzato di presenza industriale di un certo livello in Italia, mentre la globalizzazione rimane il contenitore principale di ogni politica industriale, ed anche di ogni problema di sviluppo economico, sociale ed ambientale.


Una delle motivazioni di questa attenzione ai distretti sotto forma di voci critiche e preoccupate la ritroviamo, forse, nelle riflessioni e nei dibattiti su quale sistema industriale e sulla politica industriale del nostro Paese alla luce della crisi della FIAT. Essa ha accelerato il processo di percezione delle modifiche in atto da decenni nel sistema produttivo italiano: il macro evento negativo ha posto i vari soggetti di fronte al problema, senza più veli di copertura: che tipo di sistema produttivo abbiamo in Italia e quali politiche bisogna ideare e realizzare per avere una possibilità di sviluppo nell’economia globalizzata.


 


Quale sistema produttivo abbiamo in Italia? La fotografia ISTAT non sembra dare adito a dubbi:la crisi FIAT ha messo davanti al problema della mancanza di una grande impresa industriale, capace di confrontarsi a livello internazionale, non solo in questo settore ma anche in quelli in cui la dimensione è un fattore non secondario di competizione (servizi, energia e telecomunicazioni, ad esempio, che in Italia rappresentano ciò che resta dell’intervento pubblico nell’economia dei decenni addietro), mentre nel settore manifatturiero restano quasi solo i distretti che sono cresciuti e sono una realtà ormai consolidata.


Le imprese distrettuali crescono in numero assoluto ma diminuiscono in percentuale più del resto del sistema produttivo, mentre per gli addetti si ha un’ulteriore concentrazione nei distretti, nei quali l’occupazione diminuisce meno che nel resto d’Italia.


Se vediamo però il totale delle imprese attive si ha che in percentuale i distretti non aumentano la loro quota, pari al 30,3% del totale, e crescono meno del resto del sistema.


 


I distretti industriali costituiscono una caratteristica tipica del nostro modo di produrre: essi rappresentano uno degli elementi distintivi del sistema produttivo del nostro territorio.


Il sistema produttivo italiano ormai è risaputo, si caratterizza per una forte presenza di piccole medie imprese concentrate territorialmente, legate tra loro da un sistema di regole, codici, istituzioni, competenze tali da configurare un “sistema”, complesso e dinamico, in cui cioè le economie esterne giocano un ruolo fondamentale per la loro crescita economica.


Dagli anni ’70 in poi, i distretti produttivi hanno rappresentato il punto di forza della nostra economia facendo registrare tassi di crescita importanti, e diventando un vero e proprio modello di sviluppo, dato che il fenomeno assunse le caratteristiche di una forte espansione in alcune zone del paese, facendosi fondamentale per la crescita locale (intere zone del Paese si sono risollevate dallo stato di crisi, economica e occupazionale) e trainante l’economia del nostro paese nel complesso, diventando delle punte di diamante del sistema produttivo.


Essi sono stati e sono, quindi, oggetto di studi e di interesse da più parti.


All’inizio gli studi e le analisi hanno teso a capire quali elementi facessero del distretto una realtà così vivace, studiandone punti di forza e di debolezza, caratteristiche socio economiche peculiari ed elementi di differenziazione con altre realtà produttive, sia in generale che nello specifico riferite a singole realtà distrettuali. Oggi non si può certo dire che non esista una profonda conoscenza sulle caratteristiche e sui meccanismi di funzionamento dei distretti italiani, sebbene manchi tuttora un’analisi di tipo ambientale dell’impatto che tale aggregazione di PMI produce su di un territorio. Un impatto che, adesso, specie per alcuni distretti, non solo è evidente ma è preoccupante sia per la salute dei cittadini e dei lavoratori, che per le possibilità future di espansione dei distretti. Di conseguenza, non sembra più procrastinabile l’individuazione di soluzioni sostenibili efficaci ed efficienti a misura di distretto.


Come effetto della carenza di studi tale tipo, sono mancati interventi di diverso tipo – giuridici, economici, di innovazione tecnologica e gestionale, di processo e di prodotto – volti a limitare l’impatto ambientale di tipo diffuso connesso con le attività produttive di questo tipo e l’adeguamento degli strumenti giuridici in tale campo, in linea con il libro verde sul risarcimento dei danno all’ambiente e con il libro bianco sulla responsabilità ambientale della Commissione europea.


Ma, soprattutto, ciò che è mancato in Italia è una politica ad hoc per i distretti industriali.


Mentre fiorivano, cioè, le analisi sulle caratteristiche che contraddistinguono i distretti industriali, che hanno portato elementi di conoscenza importantissimi sul funzionamento degli stessi e suoi loro impliciti limiti, lo stesso non si può dire in tema di politica industriale per i distretti italiani.


Fino al 1991 (Dlgs 317/91 e successivi interventi del legislatore), infatti, al distretto industriale non sono state riservate particolari politiche di politica industriale e, nemmeno, un corpus legislativo che li definisse in maniera univoca, quindi riconoscendoli e individuando, così, una serie di politiche di supporto e di espansione.


Non si dimentichi, infatti, che i distretti sono stati sempre molto forti nel momento produttivo, ma hanno dimostrato più debolezza nelle fasi ad esso complementari.


Infatti, il cambiamento di scenario competitivo che si è avuto negli anni ’80, con ristagno della domanda e diminuzione dell’importanza del prezzo come fattore competitivo, ha posto in evidenza la necessità di politiche di innovazione, sia di prodotto che di processo, di qualità, di immagine e di servizi accessori al cliente per poter superare la crisi e riconquistare un nuovo spazio nel mutato scenario competitivo internazionale.


Si tratta di una serie di fattori immateriali della produzione che possono essere forniti in maniera efficiente ed efficace solo operando su scala più ampia, di distretto appunto. Risultavano essenziali, quindi, adeguate politiche di sostegno attraverso misure di politica industriali che fossero in grado di sollecitare la crescita dei sistemi di piccole imprese.


Negli anni ’80, però, il governo nazionale si è trovato sprovvisto di adeguati strumenti di questo tipo, perciò è stato il livello locale che, insieme a camere di commercio, strutture di ricerca e formazione, organizzazioni imprenditoriali e dei lavoratori, ha individuato e sperimentato primi modelli di intervento.


Le differenze regionali, al riguardo, sono state enormi. Non sono state molte infatti le regioni che hanno provveduto all’emanazione di una apposita legge di individuazione dei distretti, basata sui criteri normativi sotto elencati, e ancora meno quelle che hanno avviato una fattiva politica di sviluppo. La Toscana è forse, l’unico esempio emblematico in senso positivo.


La parola alle Regioni, però, in termini di definizione di una vera e propria politica industriale si ha con la legge Bassanini (Dlgs 112/98 e successive modifiche e integrazioni), con cui i poteri inerenti la concessione di agevolazioni, contributi, sovvenzioni, incentivi, benefici inerenti l’industria passano alle regioni.


Un ulteriore passo in avanti si ha con il decreto per la liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica. Il decreto Bersani (n° 79/99) ha dato l’avvio al processo di liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica ha consentito un significativo avanzamento nell’identificazione di politiche a sostegno dello sviluppo dei distretti. Vengono considerati, infatti, come “clienti idonei” i consorzi di PMI i cui consumi individuali superino 1GWh che, però, complessivamente superino i 9 GWh (dal 2002). Essi, in tale modo, possono stipulare direttamente contratti di fornitura di energia elettrica con qualsiasi produttore, distributore o grossista sia in Italia che all’estero. Per le piccole imprese localizzate su di uno stesso territorio questo rappresenta un vero e proprio intervento di politica industriale, in quanto si dà la possibilità alle stesse di consorziarsi per beneficiare dei minori costi di acquisto dell’energia elettrica grazie al maggior potere di contrattazione che, insieme, hanno. I consorzi di acquisto hanno consentito all’Italia di fare più di quanto previsto dalla direttiva in materia di liberalizzazione del mercato del settore energetico. Si contano, infatti, alla fine dell’aprile del 2002 circa 7000 siti di consumo di tipo consortile, situati geograficamente più al nord e al centro, che al sud.


Per le piccole imprese localizzate su di uno stesso territorio questo rappresenta un vero e proprio intervento di politica industriale, in quanto si dà la possibilità alle stesse di consorziarsi per beneficiare dei minori costi di acquisto dell’energia elettrica grazie al maggior potere di contrattazione che, insieme, hanno.


E di fatto una riduzione dei costi dell’energia elettrica si è avuta, ma a fine 2002, col decreto per l’assegnazione dell’energia disponibile per il mercato libero, c’è stata una palese sproporzione a favore dei grossi impianti energivori, penalizzando quindi la maggior parte dei nuovi clienti potenzialmente idonei (circa 150.000), tra cui moltissime PMI.


Si ricorda, al riguardo, che in Italia sono più di 3 milioni le imprese esistenti: è evidente quindi il potenziale margine di miglioramento dei pochi dati prima forniti se si diffondesse una cultura della collaborazione e dell’associazionismo tra imprese per il raggiungimento di determinate finalità comuni, e si operasse in tal senso con idonei interventi di politica industriale anche a livello regionale.


 


La politica per lo sviluppo dei distretti è una strategia che si gioca su più fronti contemporaneamente: la formazione di base e professionale per accrescere il capitale umano, la creazione di idonee aree industriali, le infrastrutture (di comunicazione e per l’ambiente), il marketing territoriale e l’immagine, l’internazionalizzazione delle imprese, i servizi a supporto, la ricerca e l’innovazione tecnologica e gestionale, le politiche per la qualità, le politiche del credito e per l’incentivazione ad hoc per le PMI, non solo in quanto tali ma in quanto facenti parte di consorzi.


La difficoltà nel parlare di politiche per i distretti e nella definizione di corrette ed efficaci politiche di sviluppo degli stessi, sta nell’oggetto stesso della discussione.


Ciò che ha caratterizzato, infatti, la nascita dei distretti è un certo spontaneismo, un insieme di fattori economici, culturali, sociali, ambientali tipici di un dato territorio, difficilmente riproducibili altrove in modo eterodiretto. E’ la peculiare identità sociale di una comunità locale che esprime i distretti, quindi non solo fattori materiali, ma anche immateriali e di difficile individuazione se non attraverso indagini ad hoc, relative a quel territorio.


Queste caratteristiche dei distretti quindi, hanno creato delle iniziali difficoltà a parlare di politiche per lo sviluppo dei distretti, anche perché molti di essi erano in forte crescita economica, e quindi si pensava fosse inutile disturbare il processo.


Gli elementi distintivi dei distretti fanno sì che più che una politica industriale che consideri una serie di strumenti di diverso tipo, si debba più che altro prevedere una politica quadro in cui articolare, e adeguare, una cassetta degli attrezzi che poi andrà concretamente resa operativa a livello locale, adattandola alle specificità ai fabbisogni che quella data comunità antropica esprime.


Una politica industriale per i distretti, comunque, di cui si è iniziato a parlare e anche, come gli esempi prima riportati dimostrano, a praticare. Occorre ricordare che, considerate le peculiarità intrinseche dei distretti, questi difficilmente nascono attraverso un “aiuto” esterno. Questo può, e deve, intervenire successivamente a sostegno dello sviluppo, particolarmente in quelle fasi, diverse da quella produttiva, in cui i distretti italiani hanno mostrato maggiore fragilità intrinseca, legata cioè alle dimensioni e allo spontaneismo iniziale che li ha visti nascere.


Non si dimentichi, inoltre, che ciò che ha fatto grande il modello italiano è stata la capacità di rendere industriali delle capacità artigianali esistenti; ma se questo è stato un punto di forza, contemporaneamente esso rappresenta un limite. E’ come se le imprese dei distretti fossero arrivate al margine superiore di crescita “spontanea”, ma fintantoché sulla scena mondiale non si erano presentati competitors con caratteristiche produttive “artigianali” di analoga qualità, questo sembrava un problema secondario. Ora che, invece, la Cina ha acquisito quote di mercato notevoli, mostra i suoi punti di forza anche nei settori tradizionalmente “italiani”, con capacità produttive industriali e artigianali analoghe per qualità, ma molto maggiori per quantità e migliori per costi di produzione, in Italia si è iniziato a porre il problema di come far crescere il sistema.


Sottolineiamo che la Cina non è solo un produttore ad alto incremento del pil ed a forte capacità di esportazione, a bassi costi anche per il dumping sociale ed ambientale, ma con prodotti qualitativamente concorrenziali per i distretti italiani. Precedentemente si è detto che il distretto non è esportabile. Vero, perché tutte le analisi indicano che il distretto funziona su basi culturali condivise, che solo nel proprio territorio trovano collocazione, e si fonda su una capacità artigianale primaria trasformata in capacità industriale di piccola taglia, ma resa sinergica.


Quindi in paesi come Germania, Francia, USA, Giappone, Corea, dove non c’è storicamente una cultura artigianale di base il distretto ha difficoltà ad attecchire come modello. Ma in Cina non è così: la Cina ha una tradizione storica e culturale artigiana pari a quella dell’Italia ed è in grado di fare distretto, o almeno lo stesso prodotto del distretto. Il processo è già in atto: la concorrenza cinese si fa sentire ad esempio nel distretto della seta di Como, nella concia per arredamento, nel tessile in generale, nelle scarpe, i mobili, settori dove i distretti cominciano a perdere quote di export mondiale.


Inoltre, mentre l’Europa è più forte degli USA nel terziario, anche in quello connesso alle reti infrastrutturali, nei distretti questa superiorità penetra con difficoltà proprio per le loro caratteristiche costitutive.


Le norme europee, ed ancora di più con l’ingresso dei nuovi dieci paesi, stringono sulle condizioni igieniche ed ambientali, che comportano cambiamenti del processo e nei controlli sugli impatti sulla popolazione e sul territorio. Ma per seguire ed applicare queste norme bisogna avere a disposizione tecnici altamente preparati. Si tratta di figure professionali che difficilmente una piccola azienda può permettersi, mentre una grande impresa si. Questa carenza è “apparentemente” risolta con un mercato del lavoro sempre più flessibile, ma il problema no è tanto nelle condizioni contrattuali sempre più flessibili, ma piuttosto nella disponibilità e nell’incontro tra domanda ed offerta di lavoro altamente qualificato, ai fini di una “continuità produttiva2 che migliori la qualità.


Per cui costa di più in termini sociali ed aziendali avere a disposizione il know-how professionale necessario, ed attualmente, data la politica di basso profilo professionale nazionale e della ricerca le alte professionalità cominciano ad essere carenti sul mercato del lavoro ed anche costose.


 


Inoltre, non bisogna dimenticare che i distretti industriali rappresentano una peculiarità italiana che non trova equivalenti in Europa ed è difficilmente esportabile: quando l’Europa deciderà delle linee di sviluppo del sistema industriale nel suo complesso le penserà su scala comunitaria e noi, in questo contesto di grandi e medie industrie, abbiamo dei deficit strutturali, sia nelle dimensioni, che nella competitività dell’intero sistema Paese.


A questo riguardo occorre evidenziare che la miopia di scelte politiche che portano a privilegiare benefici a breve piuttosto che tentare di articolare un disegno strategico di più vasto respiro non può che risultare perdente alla lunga, annullando gli scarni benefici ottenuti.


I distretti ci sono, sono stati e sono ancora utili, ma ora che hanno sostituto quasi per intero la vecchia struttura produttiva fatta di “pilastri” industriali di una certa rilevanza, come si evolveranno, quantitativamente e qualitativamente? Questa è una domanda cui la politica non può sottrarsi.


Già oggi a fronte di ottimi risultati e propensioni all’export dei distretti rispetto alle imprese non distrettuali, si ha che l’Italia peggiora in competitività, si riduce la manodopera ad alta specializzazione, i distretti hanno difficoltà ad espandersi, a far crescere il numero di imprese, a rispondere efficacemente ai nuovi competitors globali, su terreni di concorrenzialità “dura” e con regole del gioco stravolte.


Qualche esempio può aiutare ad evidenziare i limiti del modello.


Ci sono distretti nei quali, la comunità antropica residente resasi conto di avere raggiunto i limiti di sostenibilità ambientale,tenta di bloccare le nuove concessioni all’apertura di aziende. Altri in cui, invece si deve, pena l’esclusione dal mercato, trovare “spazi che non si hanno” per raddoppiare i cicli produttivi, per separare in virtù delle nuove norme igienico-ambientali U.E. le lavorazioni controllate igienicamente da quelle non controllate. Infine distretti che, in virtù del poco spazio disponibile, anni fa hanno strutturato le imprese in modo innovativo e quasi rivoluzionario, e che oggi devono, se vogliono essere flessibili sul mercato, aprirne di nuove, che i comuni limitrofi non accettano.


Con questo modello si ha dunque già oggi, a macchia di leopardo ma in modo sempre più evidente una serie di carenze che si possono riassumere così:


·        Carenza di spazi e di terreni a poco prezzo per fare nuove imprese


·        Carenza di manodopera a bassa specializzazione, con grande ricorso all’immigrazione


·        Carenza di manodopera ad alta specializzazione per aprire e dirigere nuove imprese, e per adeguare i distretti alle innovazioni che altri, fuori dal distretto, hanno pensato e già utilizzano. Perché il distretto è rapido a modificarsi dall’interno, ma ha certa impermeabilità verso le innovazioni di processo e di prodotto (quando sono profonde) che vengono dall’esterno.


·        Alte spese di controlli, ambientali, sociali, istituzionali e fiscali


·        Difficoltà nel reimpiego dei profitti in ambito nazionale. Perché le vicende negative della borsa non hanno fatto nascere un sistema nazionale di imprese quotate tale da mantenere entro i confini i capitali guadagnati e risparmiati


·        Carenza di una capacità della ricerca nazionale di inseguire le esigenze formative e innovative di 4.000.000 di imprese, o 199 distretti se si preferisce, senza un sostegno finanziario-programmatico del governo centrale. Da cui una difficoltà dei distretti ad adeguarsi anche alle nuove norme ambientali o igieniche, come a richieste di innovazione di processo che non avvengano in termini medio lunghi.


·        Carenza di infrastrutture che rendano i distretti capaci di ottimizzare gli approvvigionamenti e le vendite, o i trasporti a basso impatto ambientale, così come la loro capacità di utilizzare le e-tecnology o nuove fonti di energia.


L’ampiezza dei problemi, quantitativa e qualitativa, riporta dunque al tema della necessità o meno di una politica industriale e con quali strumenti attuarla. Una politica prevede un’analisi condivisa della situazione e dei problemi. Comincia oggi forse ad essere condivisa l’analisi, ma non l’elenco dei problemi, per cui appare prematuro parlare anche solo di una politica industriale nazionale.


 


 


 


I problemi che si evidenziano nella crescita del sistema produttivo italiano sono sostanzialmente di due tipi:


1.      la competitività del sistema paese nel complesso: burocrazia, imposizione fiscale, manutenzione e sviluppo infrastrutture “a rete”, credito e servizi bancari, credito e assicurazioni all’export, spesa pubblica per formazione e ricerca, sviluppo e applicazione nuove tecnologie;


2.      La dimensione delle imprese italiane e la conseguente incapacità/impossibilità di competere sui mercati globali che richiede servizi complementari alla produzione;


3.      La mancanza di management e alte professionalità da inserire in un contesto tipicamente familiare.


Con riferimento al primo punto, si può citare una recente statistica della Competitiveness Yearbook che situa l’Italia, per la maggiore parte di questi elementi, in una posizione variabile dal 40° al 45° su scala mondiale. E’ evidente che i margini di miglioramento possono essere raggiunti solo attraverso una lungimirante ed efficace regia pubblica che, in alcuni casi, ad esempio formazione e ricerca, non può limitarsi ad essere solo regia ( ovvero produzione di regole e controllo) ma deve essere intervento finanziario e organizzativo-gestionale diretto.


La dimensione delle imprese italiane, secondo punto, non riguarda solo le imprese dei distretti, per definizione medio piccole, ma anche i grossi pilastri industriali e pone problemi di due tipi. Anzitutto di ordine procedurale per quanto concerne la facilità e i costi delle procedure connesse ad acquisizioni e fusioni di aziende, che andrebbero facilitate e incentivate. Ma anche problemi di ordine culturale, in quanto trattasi spesso di aziende familiari che vengono concepite come “parte di sé”, perciò risulta più difficile procedere ad aggregazioni che consentirebbero di raggiungere una “massa critica” per la competizione globale.


In questa ottica il processo di cambiamento del sistema proprietario nei distretti evidenzia un passaggio delle imprese da ditte individuali, a società di capitali: questa è certamente una novità importante nell’organizzazione aziendale, mal’ulteriore passo è dato dalla quotazione in borsa e dai processi di acquisizione e di fusione, altrimenti il sistema si richiude su se stesso. E senza alte professionalità distribuite nei vari livelli di gestione, senza un management esperto e autonomo tali processi risultano più complicati.


Il terzo punto attiene direttamente al mercato del lavoro ed alla formazione. In questa situazione la assenza di un mercato del lavoro con regole certe per le alte professionalità si accompagna ad un mercato del lavoro disarticolato e disomogeneo sul piano territoriale e settoriale per le basse professionalità. Non appare “sostenibile” socialmente un utilizzo di forza lavoro ad alta professionalità “non contrattato e regolato” per periodi pari ad un quinto della vita lavorativa, e soprattutto nel periodo iniziale che è il più proficuo ai fini del consolidamento dei saperi e delle capacità professionali.


Per i distretti tutti e tre i problemi sono presenti. I distretti rappresentano sicuramente una realtà consolidata, che, però, purtroppo, e questo è un elemento di novità, non cresce di importanza ma al più diventa un serbatoio, un ultimo bastione occupazionale; si pongono quindi alcuni elementi problematici:


 



  1. l’Europa costituisce sempre più il contesto entro cui esaminare i problemi e l’ambito cui riferire, ed entro cui trovare, la soluzione. Lo stesso vale per la politica industriale e per i problemi dei distretti produttivi: bisogna cercare di ancorare la soluzione ad un quadro di competitività europeo, l’unico che ha una sua struttura produttiva di portata internazionale e un sistema di valori storicamente affermati di solidarietà e di maggiore equità che vanno esportati.

  2. Come reggere l’impatto, anche a livello locale, della competizione globale senza sgretolare il sistema di valori di solidarietà, equità, giustizia sociale conquistato in un secolo di lotte che consenta di ampliare il campo di gioco senza bloccare lo sviluppo e senza trasformarlo in un mattatoio dei diritti e delle libertà delle persone e della collettività?


  1. Quanto incide il tema della sostenibilità socioeconomica-ambientale nelle scelte di sviluppo?

  2. Quali conseguenze per i lavoratori delle alte professionalità, sia a livello nazionale che europeo?

 


Si ricava dunque un’esigenza di realizzare almeno un Osservatorio sulle alte professionalità e sull’organizzazione del lavoro che segua i processi in atto e renda sinergica la formazione alta, ed anche la ricostituzione di grandi riserve di specialisti, privati e pubblici, in grado di sostenere l’innovazione tecnologica e gestionale. Forse quindi il modello va aiutato ad integrarsi, senza scandalizzarsi se lo si deve modificare, anche dimensionalmente. Servono grandi operatori industriali e di ricerca e quelli ancora operativi, prevalentemente collocati nei servizi, non sono insufficienti.


Occorre progettare tra le parti sociali un mercato del lavoro che tuteli i saperi costruiti dagli individui, piuttosto che operare per ridurre i costi individuali. Avere una capacità artigianale è importante, ma va completata con saperi alti. Va ripensato il paradigma in base al quale le p.m.i. possono fare da sole, perché se era poco vero ieri, oggi comincia ad apparire per quello che è: un errore.


Abbiamo consumato le professionalità che avevamo costruito dal dopoguerra, per anzianità degli addetti e perché abbiamo chiuso i centri di formazione, le grandi imprese manifatturiere ed i centri di ricerca pubblici, oggi cominciamo ad essere in carenza, e quindi perdiamo competitività.


Dal punto di vista della situazione sindacale, all’interno dei distretti si configurano due elementi discordanti.


Da una parte una presenza delle strutture confederali territoriali e delle organizzazioni di categoria storicamente acquisite durante la fase dei crescita negli anni 60-70 forti, accompagnate da una applicazione del contratto, per la parte salariale, completa ed in linea con le medie nazionali.


Un’analisi del rapporto tra salario e professionalità ed esperienze lavorativa, recentemente presentata, indica che a fronte di una maggiore redditività del capitale imprenditoriale impiegato nel distretto ( maggiore produttività e maggiore valore aggiunto dal prodotto distrettuale), si ha una spesa media salariale pari alla media nazionale. Di conseguenza la professionalità e l’esperienza lavorativa degli addetti nel distretto, che sono gli elementi più caratterizzanti del distretto stesso, non trovano riconoscimento contrattuale


Dall’altra permane un’evidente difficoltà a intervenire nell’organizzazione del lavoro, ed a rendere omogenea la presenza e la tutela sindacale anche alle categorie non tradizionalmente sindacalizzate.


Sfuggono quindi tre elementi, tutti particolarmente importanti ed innovativi:


·        La difficoltà ad inserire addetti ad elevata professionalità: appare connesso con il basso livello formativo e di istruzione degli imprenditori, e comporta una frizione culturale che si sviluppa sul piano gestionale oltre che in un non riconoscimento salariale della maggiore istruzione.


·        La nascita di nuove imprese micro e/o di imprese gemmate da altre del distretto, con inserimento di elementi di flessibilità incontrollata: lavoro nero e lavoro minorile e/o con istruzione inferiore all’obbligo.


·        L’esperienza lavorativa che deriva sia dalla capacità strumentale dell’addetto oltre che dal suo inserimento/affiatamento in una organizzazione del lavoro definita e specifica, viene trattenuta sotto forma di profitto piuttosto che essere riconosciuta ai lavoratori.


 


La piena applicazione e riconoscimento dei diritti in fabbrica passa certo per un’azione contrattuale, ma anche dalla condivisione, da parte della comunità che vive intorno alla fabbrica, dell’inserimento pieno dei nuovi addetti e del riconoscimento dei loro diritti nella lor interezza, sia come lavoratori che come cittadini.


L’impiego di addetti in età scolare, (i distretti sono territori ad alti tassi di abbandono scolastico) è motivato dalla certezza del posto, che, in qualche forma, la comunità distrettuale garantisce, data la continuità dell’azione produttiva del distretto ipotizzata.


L’inserimento di nuovi elementi nel distretto, sia extracomunitari che ad elevata professionalità, induce il distretto, e la sua comunità, ad un ripensamento culturale di se stessa, e viene quindi rigettata, o almeno marginalizzata: si determina così un non riconoscimento pieno di diritti dentro e fuori l’impresa.


Queste brevi riflessioni inducono quindi a ritenere che il distretto possa o debba diventare luogo di contrattazione integrata, aziendale e territoriale, anche sperimentando forme intermedie di contratto, da inserire tra la dimensione nazionale e quella aziendale, entrambe in affanno nella funzione di tutela ed estensione dei diritti.


Si vuole qui ricordare che il dibattito storico contrattuale italiano, tra i più avanzati del mondo, è stato progettato negli anni 60-70-80, ed è misurato, tagliato direbbe qualcuno, sulle grandi imprese, oggi scomparse, e sulle p.m.i. sparse, ancora presenti, ma non su aggregati come i distretti.


Esiste nei distretti la consapevolezza dei diritti sindacali, ma non esiste uno strumento dedicato specifico, mentre a livello nazionale la progettazione di nuove forme di tutela arranca. Sembrerebbe quindi il caso di cominciare a studiare e sperimentare nel corpo vivo del sistema produttivo quello che si può e si deve fare per riformare la struttura contrattuale rendendola adeguata alle nuove generazioni e nuovi bisogni.


 


 


 


 


 


 

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