di Aris Accornero – Professore emerito di Sociologia Industriale all’Università di Roma – La Sapienza
Salutare, istruttiva e fin troppo classica la vertenza alla Fiat di Melfi: una vera lezione di relazioni industriali, per chi sappia intendere. Eppure c’è voluto del tempo, prima che brillanti osservatori ed esperti capissero che alla base di tutto non c’era la Fiom-Cgil ma un malessere così diffuso e persistente da poter deflagrare di botto.
Nel celebratissimo stabilimento Sata, nel cuore della “fabbrica integrata”, nell’oasi del “prato verde”, era maturato con gli anni uno scontento via via cumulato e mai sfogato né ascoltato. Fin dalle prime ore della rivolta, incanalata a modo suo dalla Fiom, tutte le organizzazioni sindacali sapevano quindi quel che bolliva in pentola; lo avevano riconosciuto, con franchezza, anche quelle che cercavano a modo loro di tamponare una situazione che sembrava sfuggire di mano a tutti. Orari e salari: questo era il contenzioso ormai consolidato che i sindacati avevano a più riprese chiesto al management di affrontare a viso aperto.
L’orario era fatto di turnazioni non soltanto asociali ma proprio disumane perché da un lato si combinavano con cadenze e ritmi di lavoro assai tesi e saturati, e dall’altro si sommavano a pendolarità di media-lunga distanza tali che i tragitti casa-lavoro erano all’altezza dell’high commuting americano.
Il salario, a sua volta, era connotato innanzitutto da un dislivello cronico rispetto agli altri stabilimenti Fiat, che la finzione della sigla Sata non bastava certo a giustificare; e poi era addirittura marchiato da una intollerabile distanza rispetto agli standard di produttività dello stabilimento, giustamente celebrati ma nient’affatto riconosciuti.
Posto di fronte a questa situazione, qualsiasi operatore, specialista o studioso di relazioni industriali avrebbe ritenuto che la cosa non poteva durare e che anzi rischiava di finire male, com’è poi successo con le migliaia di auto Fiat non prodotte, mentre l’azienda torinese non è ancora uscita dalla crisi. La crisi: ecco un argomento che parecchi osservatori ed esperti hanno invocato per stigmatizzare il comportamento della Fiom e dei lavoratori che per giorni sono rimasti fuori dei cancelli mentre tanti di loro bloccavano le strade e gli ingressi: una cosa del tutto inopinata e mai vista da quelle parti. Ma proprio la crisi avrebbe dovuto suggerire alla Fiat di affrontare il cahier de doléances sindacale per impegnarsi a risolvere i problemi man mano la situazione aziendale veniva migliorando: anche qui c’è stata una sordità ingiustificabile.
Ma c’è di più. Il segno che la situazione era stata gestita in modo assolutamente miope sta nelle novemila fra multe e sospensioni per motivi disciplinari comminate dalla Sata-Fiat negli ultimi due anni. Un dato francamente incredibile. Ciò contraddiceva in modo così patente il clima originario della fabbrica integrata e partecipata da costituire un campanello di allarme e un prodromo di disastri. Ma come? Ricordiamo tutti quali furono le premesse socio-culturali del nuovo insediamento di Melfi, quali i messaggi mediatici inviati dalla Fiat al mondo dell’industria, alle organizzazioni dei lavoratori, ai giovani del Sud. Mano d’opera d’élite e relazioni partecipative dovevano essere i pilastri di un governo nuovo dell’impresa, che superasse il modello giapponese della Toyota ed emulasse il modello Saturno della General Motors.
E invece, dopo dieci anni, ci si trovava di fronte a un clima che ricorda la Fiat degli anni ’50. Possibile che ne fossero colpevoli i lavoratori meridionali selezionati dalla Fiat con tanta cura per lo stabilimento Sata: quale mutazione antropologica poteva averli resi così trasgressivi? (Anche le cifre sull’assenteismo parevano segnalare problemi, benché i dati fossero gonfiati da assenze giustificate quali quelle per congedi parentali, assistenza agli handicappati, donazioni di sangue, interventi di dialisi, attività sindacale.)
Ora la vicenda si è conclusa, fortunatamente in modo unitario e con l’approvazione dei lavoratori. L’esito è stato il più logico e il più canonico, com’è successo anche altre volte in questo tipo di situazioni: la Fiat ha ceduto su tutta la linea, sia pure con parsimonia e gradualità. Alla radice della rivolta e nelle forme di lotta stesse non c’erano del resto istigazioni sovversive o sindacalisti irresponsabili: i lavoratori davvero esacerbati erano il grosso della maestranza, e lo hanno dimostrato partecipando in massa al lungo sciopero. Qualcuno si è perfino accorto di avere parlato troppo male della Fiom, che in questa occasione la Cgil ha saputo efficacemente coadiuvare e orientare, come del resto spetta all’istanza confederale. Qualcun altro ha capito che l’intervento della polizia non poteva fare rientrare lo scontento né tanto meno risolvere la vertenza.
Certo è un po’ triste che per vedere riconosciute le proprie ragioni i lavoratori della Fiat-Sata di Melfi abbiano dovuto privare l’azienda di così tante auto, mentre l’azienda sembra riprendersi. D’altro canto, la conclusione della vertenza mostra da quale parte stava il torto. E può dispiacere che il clima operaio di queste settimane abbia riproposto lo scenario del conflitto industriale, in tutta la sua pienezza e classicità. Ma così è: si vede che le teorie in materia resistono bene al tempo e non temono il post-fordismo (figuriamoci poi se è così fordista come a Melfi…).