In Italia il welfare assorbe 669,2 miliardi di euro pari al 60,4% del totale della spesa pubblica, con la previdenza che pesa per il 16% del Pil. Tra il 2019 e il 2025 le risorse destinate a tutte le componenti sono in aumento: politiche sociali +35,2%, previdenza +25,3%, sanità +24,8% e istruzione +21,1%. All’interno di questo perimetro la previdenza pesa il 16% del Pil, contro una media dell’Eurozona del 12,3%. Istruzione e politiche sociali, invece, restano sotto la media europea, rispettivamente con il 3,9% e il 4,9%
Sono alcuni dei dati emersi nel corso del Forum Welfare, Italia dal titolo “Capitale Umano: la nuova leva della competitività nazionale”, durante il quale è stato presentato il Rapporto realizzato dal Think Tank di Welfare Italia, promosso da Unipol in collaborazione con The European House Ambrosetti, e al quale hanno partecipato esperti ed esponenti delle istituzioni, come i ministri dell’Istruzione e della Salute, Giuseppe Valditara e Orazio Schillaci, la vice ministra del lavoro, Maria Teresa Bellucci, il presidente dell’Inps Gabriele Fava e Daria Perrotta, alla guida della Ragioneria Generale dello Stato.
Secondo le stime del Think Tank, allineando l’Italia ai benchmark europei su occupazione giovanile, femminile, stranieri, partecipazione della fasci tra 60 e 69 anni, si può attivare un incremento occupazionale di circa 2,8 milioni di unità e una crescita del Pil fino a 226 miliardi di euro, pari a +10,6% rispetto ai livelli attuali. L’obiettivo è un welfare sostenibile, inclusivo ed equo, fondato sul capitale umano e la prevenzione, in grado di unire crescita economica e coesione sociale e di sostenere la competitività di lungo periodo del paese.
“Parlare di welfare oggi – ha detto il presidente dell’Inps, Gabriele Fava – significa parlare del futuro del paese perché un paese cresce solo se cresce insieme. Nessuna economia oggi è competitiva se non è coesa”. E “oggi l’Inps è il welfare in Italia”, ha spiegato Fava aggiungendo: “senza politiche d’inclusione attiva e qualificazione del capitale umano, il sistema non regge. Ma quali sono le sfide future che attendono il welfare italiano?
Il calo demografico richiede una revisione e un riequilibrio degli impegni della spesa pubblica. Le proiezioni indicano che nel 2050 la popolazione scenderà sotto i 55 milioni di abitanti e nel 2080 arriverà a 46 milioni. L’incidenza degli over 65 toccherà quasi al 35% nel 2050 e già nel 2035 si stima che i pensionati andranno a superare la popolazione attiva. Questo mette a rischio la sostenibilità del sistema previdenziale e l’incremento della popolazione anziana implica una maggiore domanda di servizi sociali e sanitari e quindi una spesa crescente. Per questo. “Nel 2050 – ha spiegato Alessandro Rosina, docente di demografia alla Cattolica di Milano – ritorneremo ad avere la stessa popolazione degli anni’70. A cambiare sarà la composizione, con la quota degli over 65 in crescita. Per questo dobbiamo puntare sulla qualità e non sulla quantità. C’è, ancora, un problema di trattenimento e di attrazione dei giovani. I nostri laureati vanno fuori non solo perché ci sono condizioni di lavoro più favorevoli ma anche sistemi di welfare capaci di intercettare meglio le loro esigenze”.
Nel contempo il mercato del lavoro registra una bassa competitività e uno scarso benessere. “I giovani faticano ad entrare mentre si allunga la permanenza degli over 55 per effetto della riforma Fornero – ha detto Veronica De Romanis, docente di politica economica europea presso “The Breyer Center for Overseas Studies” della Stanford University a Firenze, alla Facoltà di Scienze Politiche e al Master di Business Administration della Luiss -. Investiamo pochissimo in formazione e scontiamo un bassa dinamicità del mercato del lavoro”. Fattori che limitano una piena valorizzazione del capitale umano e che frenano la partecipazione di alcuni gruppi sociali, giovani e donne prima di tutto. La disoccupazione degli under 25 tocca il 19,3%, 4,5 punti percentuali sopra la media europea, che ci pone all’ottavo posto in Europa. Dati ancor più negativi per la partecipazione femminile che si attesta al 57,4%, 13,4 punti percentuali al di sotto della media dell’Ue, che rende il nostro paese fanalino di coda.
A incidere sulle performance del mercato del lavoro anche quanto il paese spende per l’istruzione e il livello di competenze dei suoi lavoratori. Come detto l’Italia investe in istruzione il 3,9% del Pil, pari a 78 miliardi di euro. Un valore inferiore dell’0,8% rispetto alla media europea e significativamente più basso se si guardano i paesi dell’Europa settentrionale. Anche la spesa pro capite per ogni studente, poco sotto i 7mila 900 euro, è al di sotto di quella di altre realtà. A tutto questo si aggiunge un tasso di dispersione scolastica che ci posiziona all’8° posto in Europa, con una percentuale al 9,8% che tradotto significa che nel 2024 400mila giovani tra i 18 e i 24 hanno lasciato il mondo delle formazione. Scontiamo, inoltre, una bassa quota di laureati, 31,6% contro una percentuale europea al 44,1%. L’Italia paga poi il prezzo del cosiddetto brain drain, ovvero la fuga dei cervelli. Nel 2024 49mila laureati hanno lascito il paese, con un incremento del 35% sull’anno precedente, con un perdita di 6,9 miliardi di euro l’anno.
Cittadini meno istruiti vuol dire lavoratori meno stabili e meno pagati. Il tasso di occupazione di chi ha una formazione inferiore, al 55%, risulta minore di 19 punti percentuali rispetto a chi ha un titolo di studio secondario di secondo grado, 74%, e di 41 punti percentuali rispetto a chi possiede una laurea, 84,7%. Dal punto di vista della ricchezza, il reddito medio annuo di chi ha un basso livello di istruzione è di 18,7 mila euro, inferiore del 21,4% rispetto a chi ha un diploma di scuola superiore, 23,8 mila euro, e del 41% rispetto a chi possiede una laurea, 31,9 mila euro.
La evidenze raccolte dal Think Tank spiegano che le persone con una bassa istruzione sono più esposte alla povertà o all’esclusione sociale. Complessivamente la popolazione soggetta a questi pericoli è il 23,1%, mentre sono circa 5,7 milioni gli individui in povertà assoluta. Numeri che non sono uniformi in tutto il territorio. In Trentino Alto Adige il rischio di povertà ed esclusione si ferma all’8,8% contro il 48,8% della Calabria. Diseguaglianze che si riscontrano anche nella capacità dei sistemi di welfare locali di rispondere alle esigenze dei cittadini. Secondo il Welfare Index 2025, strutturato su 22 Key Performance Indicator che valuta la capacità di spesa e gli effetti che questa produce, fatto 100 il masso il punteggio della provincia autonoma di Trento si attesta a 83,8 punti contro i 60 della Calabria.
Alla luce di questi scenari il Think Tank propone una ricetta per la valorizzazione del capitale umano che si articola su vari punti. Sul fronte educativo viene proposto un aggiornamento dei metodi formativi, un sistema di valutazione esterno che garantisca la qualità di istituzioni e docenti e una formazione che metta al centro l’intelligenza artificiale. In ambito lavorativo bisogna rafforzare e ampliare politiche di inclusione nel mondo del lavoro, la transizione scuola-lavoro e un percorso di aggiornamento e riqualificazione delle competenze che accompagni i lavoratori nell’arco della loro vita professionale. E, infine, una maggiore inclusione e coesione sociali che punti sulla stabilità economica, con investimenti in salute e servizi.



























