di Carlo Dell’Aringa, Università Cattolica di Milano
Venerdì 10 ottobre Confindustria, Cisl e Uil hanno raggiunto una pre-intesa sul nuovo modello contrattuale. La Cgil non ha firmato, ma si è deciso, di comune accordo, di non interrompere le trattative, bensì di continuarle ad un tavolo allargato alle altre organizzazioni imprenditoriali e allargato anche al Governo (in quanto datore di lavoro dei pubblici dipendenti). Si è così evitata una frattura clamorosa. I problemi, comunque, sono stati solo rinviati. Le difficoltà rimangono tutte e sono persino destinate ad aumentare. Infatti non è scontato che il modello individuato da Confindustria, Cisl e Uil vada bene anche per gi altri settori, dove già da tempo i sistemi di contrattazione collettiva presentano proprie specificità. Non sarà facile trovare un minimo comun denominatore per tutti i comparti contrattuali e si può solo prevedere che i tempi non saranno brevi. Se non altro – e questo può essere un vantaggio – l’allungamento dei tempi servirà per stemperare le divisioni in casa sindacale. Non servirà certamente per dare una risposta tempestiva ai problemi che le relazioni sindacali si trascinano da tempo nel nostro Paese.
I sondaggi più recenti segnalano un’ulteriore caduta del grado di “popolarità” dei sindacati nell’opinione pubblica. E’ difficile capire se si tratta di un fenomeno congiunturale o di una pericolosa tendenza. L’esperienza Alitalia non ha certo aiutato. In quella vicenda la stessa unità sindacale ha rischiato di fare passi indietro.
E anche in questo caso le premesse per un accordo condiviso da tutti non sono le migliori e gli esperti non nascondono le difficoltà e gli ostacoli che dovranno essere superati. Gli ostacoli sono difficili, anche in relazione agli obiettivi da raggiungere, in primis quello di rendere il sistema di contrattazione collettiva maggiormente in linea con le esigenze del nostro Paese. La direzione verso cui andare sembra condivisa: da un lato, occorre valorizzare la contrattazione in azienda e, dall’altro, rendere il sistema di relazioni sindacali più funzionale alla soluzione dei problemi che abbiamo di fronte. In particolare quello di stimolare la produttività e far crescere i salari che, come si sa, sono praticamente al palo da sette anni a questa parte.
Per quanto le specificità della contrattazione collettiva che si svolge nei diversi settori siano consistenti, il nuovo modello che emerge dal documento del 10 ottobre, potrebbe essere almeno in parte replicato in altri settori. Non tutta la proposta è utile a questo scopo. Ma la parte relativa alla riformulazione della procedura e dei contenuti del contratto nazionale, soprattutto per quanto riguarda gli aumenti dei minimi tabellari, può essere utilmente ripresa.
La proposta consiste nel sostituire al tasso di inflazione programmato quel tasso “ragionevolmente previsto” che era stato indicato nel documento presentato dalle tre confederazioni sindacali prima dell’estate. Personalmente credo che anche i paletti inseriti dal documento del 10 ottobre siano utili e cioè: 1. depurare l’inflazione delle componenti importate; 2. applicare il tasso previsto ad una retribuzione convenzionale che raggruppi le componenti fisse determinate dal contratto nazionale. Questa ultima indicazione permette , in particolare, di individuare il valore in euro di ogni punto del tasso di inflazione previsto, per ciascuno dei livelli e delle posizioni in cui, in ogni comparto, il personale viene suddiviso. Le retribuzioni convenzionali sono poi definite in sede di contrattazione di comparto.
Questo sistema semplifica di molto il calcolo e l’individuazione degli aumenti retributivi da concedere al personale e può permetter un più agevole svolgimento delle trattative sugli aumenti dei minimi tabellari da concedere per il periodo di vigenza del contratto nazionale. Lo agevolerebbe certamente per il pubblico impiego, dove, sulla base della distribuzione del personale nei diversi livelli e diverse posizioni, permetterebbe di calcolare facilmente le risorse complessive richieste per il rinnovo dei contratti. Potrebbero così finire le estenuanti trattative tra sindacati e Governo sul tasso di inflazione programmata. Ora sarebbe un istituto di ricerca esterno, autorevole e autonomo, a definire il tasso previsto. I giochi al ribasso sul tasso programmato verrebbero messi al bando e anche il sindacato non avrebbe più la tentazione di giocare sull’entità delle risorse disponibili, per alzare la quota da destinare agli aumenti delle componenti fissa, a scapito di quelle variabili.
Il modello funzionerebbe anche negli altri comparti, dove le regole dell’Accordo del 1993 non riescono più a garantire i rinnovi in tempi utili (e con la firma di tutte le sigle sindacali). Si pensi al contratto dei metalmeccanici e alle difficoltà che le parti sociali hanno dovuto affrontare in questi anni in occasione dei rinnovi del contratto. Con la nuova proposta si sgombra il campo sia dalle discussioni sull’inflazione programmata (ormai “incredibilmente” bassa da qualche anno a questa parte), sia dalle divergenze di opinioni circa il ruolo del contratto nazionale, e soprattutto se esso debba o meno distribuire almeno parte degli aumenti di produttività realizzati a livello di settore produttivo. Il nuovo modello sgombra il campo da queste discussioni e divergenze: il tasso di inflazione è definito da una autorità esterna e la distribuzione degli aumenti di produttività è rinviata alla contrattazione di secondo livello.
Per quanto riguarda invece questo secondo livello, il modello che emerge dal documento di Confindustria, Cisl e Uil, non è certamente esportabile in tutti gli altri settori. Non lo è certamente nel pubblico impiego, dove la contrattazione di secondo livello è diffusissima. Allo stesso modo è difficilmente applicabile in settori dominati dalla grande e media dimensione (credito). Non lo è probabilmente in quei settori dove la contrattazione territoriale svolge un ruolo importante, come nell’artigianato e nel commercio.
Va comunque osservato che il principio generale che ha ispirato l’introduzione dell’elemento di garanzia nel documento del 10 ottobre può essere ripreso e applicato, in un contesto sia pure diverso, in altri comparti , diversi da quelli industriali. Il principio generale che ha ispirato l’elemento di garanzia, è quello dell’assorbimento, cioè il principio che esonera le imprese dal pagare due volte. Cioè esonera le imprese che svolgono la contrattazione di secondo livello di pagare almeno parte degli aumenti fissati dal contratto nazionale.
L’elemento di garanzia del documento del 10 ottobre funziona esattamente così: funziona come garanzia per i lavoratori che non hanno altri aumenti oltre quelli definiti in prima battuta dal contratto nazionale. Il che vuol dire appunto, dal punto di vista delle imprese, che esse sono esonerate dal pagare questo elemento, nel caso abbiano concessi autonomamente altri aumenti a livello aziendale. L’elemento di garanzia si aggiunge agli aumenti dei minimi tabellari come strumento per proteggere l’intera retribuzione di fatto dall’inflazione e per distribuire almeno parte degli aumenti di produttività realizzati nel settore.La condizione, naturalmente, è che questi aumenti si verifichino. E infatti è previsto che l’elemento di garanzia venga distribuito ex post.
Questo elemento di garanzia, basato sulla tecnica dell’”assorbimento sino a garanzia”, può avere una applicazione più generale di quella prevista dal documento di Confindustria, Cisl, Uil. Infatti può essere applicato in qualsiasi circostanza in cui la contrattazione di secondo livello non abbia carattere generalizzato. E non importa che si tratti di contrattazione aziendale o territoriale. Può essere applicato in entrambi i casi.
Il ruolo di garanzia svolto dal contratto nazionale, inoltre, rende del tutto superfluo che vi sia un contratto territoriale accanto e in alternativa al contratto aziendale. Nel modello con elemento di garanzia fissato dal contratto di categoria, il ruolo del contratto territoriale, che nel documentato dei sindacati doveva svolgere un ruolo di supplenza nei confronti del contratto aziendale, non serve più in quanto questo ruolo viene svolto dal contratto nazionale.
Non credo che tutti i sindacati (e non solo la Cgil) abbiano rinunciato al livello territoriale di contrattazione e si può presumere che torneranno alla carica. E un modo per farlo può essere proprio quello di proporre una modulazione territoriale dell’elemento di garanzia. Il che non sarebbe sbagliato, in linea di principio : una differenziazione delle retribuzioni sul territorio sarebbe utile per diversi motivi (costo della vita e disoccupazione differenziati territorialmente). Ma forse sarebbe sbagliato in pratica (conoscendo come vanno le cose in questi casi): probabilmente tornerebbe dalla finestra quello che si vuole fare uscire dalla porta e cioè il pericolo che le imprese che fanno contrattazione aziendale paghino due volte, una a livello aziendale e una a livello territoriale. Mandando in soffitta, in questo modo, il principio di assorbimento.
Vi è infine da fare una osservazione a proposito del radicale cambiamento che l’elemento di garanzia retribuita ha subito nel passaggio dal primo documento della Confindustria del 12 settembre (Ipotesi di accordo…) al secondo documento del 10 ottobre (Proposte di linee guida). Nel primo documento l’elemento di garanzia era: “un importo … a favore dei lavoratori che, in sede aziendale, non percepiscano nessun altro trattamento economico in aggiunta a quanto previsto dal solo contratto collettivo nazionale di categoria”. Il nuovo istituto contrattuale, così definito, ricalcava l’”elemento perequativo” del recente contratto dei metalmeccanici.
Nel secondo documento, l’elemento di garanzia è definito allo stesso modo del primo documento, ma poi si aggiunge anche che “Il beneficio sarà determinato con riferimento alla situazione rilevata nell’ultimo quadriennio”. Il che vuol dire che il beneficio viene riconosciuto non solo a chi non ha altro in busta paga (oltre i minimi), ma anche a coloro che non hanno avuto altri aumenti nell’ultimo quadriennio. In definitiva il nuovo istituto non garantisce più e solo un “livello” minimo delle retribuzioni (prima formulazione), ma garantisce anche un “aumento minimo” in aggiunta agli aumenti dei minimi tabellari (seconda formulazione). Si tratta di un cambiamento radicale, a proposito del quale si possono fare, per ora, le seguenti osservazioni.
Primo, non è dato sapere se in casa sindacale sia sta apprezzata la novità in tutta la sua portata. Certamente nessun apprezzamento è stato fatto dalla Cgil (e questo è strano, visto il carattere fortemente egualitario di questo nuovo istituto). Secondo, non sarà agevole la sua applicazione. Sarà una componente fissa (come lo è l’elemento perequativo dei metalmeccanici), o, come probabile, una componente variabile della retribuzione? E, se variabile, come lo si applicherà nelle numerosissime microimprese? Il documento rinvia questi problemi (e altri) ai contratti di categoria. Il che va bene dal punto di vista della flessibilità. Ma per non scaricare una vera e propria patata bollente, non sarebbe male che le linee guida “guidassero” un po’ di più e meglio.


























