di Cristina Tajani – Dipartimento di Studi del Lavoro e del Welfare-Università degli Studi di Milano
1. La consueta pubblicazione, durante il mese di settembre, della “EU Labour Force Survey” da parte di Eurostat e della rilevazione trimestrale sulle forze di lavoro dell’Istat offre un’occasione per fare il punto sullo stato degli indicatori occupazionali in Italia ed in Europa in una fase in cui un flebile vento di ripresa economica torna a soffiare sul continente fino a raggiungere la nostra penisola.
La teoria economica neoclassica predice che variazioni positive del prodotto si accompagnino a variazioni positive dell’occupazione. Questo trade-off ha smesso di essere uno strumento di previsone affidabile dopo le crisi economiche degli anni ’70. Negli anni ’80 e ’90, infatti, i picchi negativi della produzione hanno causato crisi occupazionali, ma la relazione inversa non è sembrata più tanto robusta: quando il PIL tornava a crescere l’occupazione non ha mostrato i segnali positivi che ci si sarebbe attesi . (1)
Il tentativo di rendere più flessibile il mercato del lavoro europeo, tramite le riforme che, in modi differenti, hanno coinvolto tutti i paesi UE negli anni ’90 è andato proprio nella direzione di sollecitare una più rapida reattività dell’occupazione al ciclo economico. Ma la realtà del mercato del lavoro è di più complessa lettura e non sembra così facile rispondere alla domanda sulla funzione della flessibilità al margine introdotta nei diversi mercati del lavoro nazionali: “ciscinetto” rispetto al ciclo economico o progressivo processo di sostituzione di lavoro “stabile” con lavoro “flessibile”?
2. La lettura dei dati Eurostat (http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/) suggerisce che nonostante i segnali positivi per la crescita, l’occupazione nell’Europa-25 è ancora lontana dagli obiettivi di lungo termine fissati a Lisbona nel 2000 e da quelli di medio termine di Stoccolma 2001.
Nel mese di settembre, l’Eurostat, l’istituto statistico comunitario, ha diffuso la consueta survey per il 2005 sulle forze di lavoro nell’Europa allargata. Il tasso di occupazione, ovvero la misura della porzione di popolazione tra i 15 e i 64 anni che dichiara, nella settimana della rilevazione, di aver lavorato almeno 1 ora, si attesta al 63,8% della popolazione di riferimento per quanto riguarda l’Europa-25 ed al 65,2% per l’Europa-15. Entrambi i tassi risultano così ben al di sotto dell’obiettivo del 70% fissato a Lisbona per il 2010, ma anche al di sotto del target di medio termine, fissato a Stoccolma nel 2001, che prevedeva il raggiungimento, entro il 2005, di un tasso di occupazione pari al 67%.
Se, dunque, per quanto riguarda i traguardi di lungo termine possiamo almeno sperare, quelli di medio termine sono stati inesorabilmente mancati sia dal nucleo originario dei 15 paesi UE, sia dall’Europa allargata. Quest’ultima non traguarda nemmeno l’obiettivo del 57% di occupazione femminile fissato per il 2005: i 25 paesi si fermano, infatti, ad un tasso di occupazione femminile pari al 56,3%. Fanno “goal”, invece, i paesi dell’Europa a 15 raggiungendo un buon 57,4%.
Ma dietro le medie si nascondono le disparità enormi tra i paesi: sono infatti i paesi nord-europei, dal welfare solido e dal part-time ben pagato, a trascinare in altro l’occupazione femminile: Danimarca, Olanda, Austria, Finlandia e Svezia svettano, insieme a Portogallo ed Estonia, nella classifica della buona performance dell’occupazione femminile (al di sopra del 60%), mentre Italia, Grecia, Polonia e Malta si distinguono per i cattivi risultati: nemmeno una donna su due risulta occupata. Per quanto riguarda l’Italia i dati Istat relativi al II trimestre 2006 confermano l’Eurostat: il tasso di occupazione femminile nel nostro paese è fermo al 46,7%, nonostante una variazione percentuale positiva sul 2005 pari a poco più di un punto percentuale.
Se dovessimo giudicare questa performance alla luce degli obiettivi che i governi europei si sono prefissati a Lisbona e Stoccolma le conclusioni non sarebbero positive, nonostante i tentativi di aumentare i tassi di occupazione mediante la flessibilizzazione degli impieghi. Non esistono, tuttavia, sanzioni per i mancati obiettivi sociali, così come avviene, invece, per gli obiettivi di bilancio stabiliti nel Trattato di Maastricht. È naturale, quindi, che i governi siano portati a considerare gli obiettivi occupazionali (ma più in generale quelli sociali) come meno stringenti rispetto a quelli di bilancio: avviene così che Lisbona e Maastricht non procedano su binari paralleli.
È indubbio, tuttavia, sebbene non univocamente giudicato, il significativo incremento dei salari provenienti da impieghi temporanei: nel 2005 ben un salario su sette nell’Europa-25 era “temporaneo”, il 14,5% contro il 13,7% di appena un anno prima. Svettano nella classifica della precarietà Spagna e Portogallo, dove la percentuale di contratti a termine si attesta, rispettivamente, sul 33,3% e 25,7% del totale. L’Italia, con il suo 12,3% (13% secondo l’Istat nel II trimestre 2006) si posiziona a metà classifica. È bene notare che questi dati si riferiscono agli stock dei contratti temporanei in essere; rappresentano, cioè, la percentuale di contratti temporanei sul totale dei contratti. Se invece guardassimo ai flussi, cioè al peso del lavoro temporaneo sul totale dei nuovi avviamenti al lavoro, le percentuali si invertirebbero. Purtroppo la survey Eurostat (così come l’Istat) non fornisce i dati di flusso. Eurostat conferma, però, un’altra tendenza forte del lavoro temporaneo: la sua dimensione femminile. In 17 paesi su 25, infatti, la percentuale di donne con contratto a termine supera quella maschile. Sulla base di questi dati, seppure interessanti nel restituire la dimensione europea dei fenomeni occupazionali, è difficile andare oltre l’analisi “fotografica” che i dati di stock forniscono.
3. Passando dal quadro europeo alla dimensione nazionale, se è vero che per nessun paese europeo è possibile stabilire univocamente il contributo che la flessibilizzazione del mercato del lavoro ha fornito rispetto alle performance occupazionali, è pure innegabile che il nostro paese ha assistito, negli ultimi anni, ad un miglioramento degli indicatori occupazionali. L’ultima rilevazione dell’Istat segnala che nel secondo trimestre 2006 l’offerta di lavoro è salita, rispetto al secondo trimestre 2005, dell’1,3 per cento (+320.000 unità). Rispetto al primo trimestre 2006, al netto dei fattori stagionali, l’offerta è cresciuta dello 0,3 per cento.
Confermando tendenze in atto da tempo, contributi rilevanti alla crescita dell’occupazione derivano dalla componente straniera (+162 mila unità soltanto nel II trimestre 2006 ed in calo rispetto agli incrementi registrati nei trimestri precedenti) e dalle persone di 50 anni e oltre (+242.000 nel II trimestre). Un ulteriore significativo apporto all’aumento del numero di occupati è fornito, tra la popolazione italiana con meno di 50 anni, dai lavoratori a tempo determinato (+120 mila unità).
In termini destagionalizzati l’occupazione nell’insieme del territorio nazionale è salita dello 0,6 per cento in confronto al primo trimestre 2006.
Nel secondo trimestre 2006 il numero delle persone in cerca di occupazione è risultato pari a 1.621.000 unità, manifestando un calo dell’11,8 per cento (pari a -216.000 unità) in confronto a un anno prima.
Al netto dei fattori stagionali il tasso di disoccupazione è passato dal 7,3 del primo trimestre 2006 al 7,0 del secondo trimestre 2006 (2)
Se guardiamo al medio periodo, quindi, si può concludere che nell’ultimo quinquennio il tasso di disoccupazione in Italia è diminuito di oltre un punto e mezzo, passando dal 9,1 del 2001 al 7,7 del 2005 (diventato addirittura 7% nel II trimestre del 2006). Questo progressivo assottigliarsi del tasso di disoccupazione è avvenuto in anni di crescita economica esigua (nel 2005 prossima allo zero) contribuendo a mettere in crisi il trade-off di cui si accennava in precedenza.
Molti osservatori tra coloro che si sono spesi nel sostenere la flessibilizzazione dei contratti non hanno esitato ad attribuire questo risultato alle riforme del mercato del lavoro, invocando ulteriore flessibilità.
In realtà il dibattito sugli effetti occupazionali delle recenti riforme del lavoro ha bisogno di arricchirsi ancora di contributi teorici ed empirici (3). In Italia, ancor meno che nel resto d’Europa, sono ancora pochi i lavori che analizzino questa problematica in una prospettiva controfattuale: la domanda non è tanto quella che si interroga su cosa è successo dalla seconda metà degli anni ’90 (indicando in quegli anni una tappa importante del processo di riforma del mercato del lavoro) ad oggi, ma piuttosto quella che si interroga sul cosa sarebbe successo se quegli interventi non fossero stati attuati.
Tavola 1. Saldo occupazionale Italia 2005-2006
Anno Trimestre Saldo occupazionale rispetto allo stesso
trimestre dell’anno precedente
2005 I + 308.000
2005 II + 213.000
2005 III + 57.000
2005 IV + 55.000
2006 I + 374.000
2006 II + 536.000
Fonte: Istat
4. In effetti, se si guarda al mercato del lavoro italiano (ma non è molto differente per altre economie europee), di fianco al dibattito sugli effetti della flessibilità, c’è un altro elemento che non può essere omesso dall’analisi dei fenomeni occupazionali degli ultimi lustri: si tratta del contributo dei lavoratori immigrati alle performance dei mercati del lavoro nazionali.
Proprio l’Istat ha ammesso che gran parte dell’incremento occupazionale osservato in Italia è riconducibile ad un fatto statistico-contabile (4), che si spiega attraverso il graduale inserimento dei lavoratori immigrati nella popolazione residente, dopo la sanatoria del 2002. Fenomeni analoghi, seppur in proporzioni inferiori a causa del numero minore di lavoratori stranieri interessati, si sono osservati in seguito alle sanatorie del 1990, 1995, 1998.
La lenta emersione del lavoro migrante è ancora lontana dall’esaurirsi: le ultime rilevazione trimestrale sulle forze di lavoro segnalano un costante aumento del numero di occupati (+374.000 unità nel I trimestre 2006 e + 536 mila nel II) e che la crescita si deve in maniera rilevante alla componente straniera (+224 mila unità nel I e +162 mila unità nel II trimestre 2006). Si tratta di persone già occupate nel mercato del lavoro ma lentamente evidenziate dalle statistiche. A riprova di ciò c’è il costante aumento occupazionale registrato negli ultimi anni dai settori dell’agricoltura e delle costruzioni (che dopo svariati trimestri di crescita, solo nel II trimestre del 2006 segnano un’inversione di tendenza registrando un decremento occupazionale rispettivamente dello 0,5% e dell’1,1%), dove è alta la concentrazione di lavoro migrante.
A dispetto del contributo significativo che i lavoratori stranieri forniscono alla nostra economia, le statistiche ufficiali ci dicono pochissimo di queste persone e delle loro professionalità. Solo nei primi mesi del 2006 l’Istat ha cominciato a diffondere dati sulla forza lavoro straniera in Italia. Dalle statistiche, fino ad oggi poco riprese, emerge la conferma di un lavoro migrante istruito e qualificato (in proporzione assai più istruito degli occupati con cittadinanza italiana) ma largamente sottoutilizzato rispetto alla professionalità che è in grado di esprimere. Infatti, circa la metà degli occupati stranieri è in possesso di una laurea o di un diploma, mentre il 36,4 per cento è in possesso della licenza media. Ciò nonostante quasi il 40 per cento di quelli che hanno una laurea svolgono un lavoro non qualificato o un’attività comunque manuale. L’incidenza cresce fino ad oltre il 60 per cento per gli occupati in possesso di un diploma.
In aggiunta a ciò si comincia a intravedere, nell’occupazione degli stranieri, una etnicizzazione delle professioni che ricorda molto da vicino il mercato del lavoro statunitense. Questo in riferimento anche ai lavoratori neo comunitari, per i quali solo dallo scorso luglio (grazie ad un intervento legislativo del Governo italiano che ha recepito una raccomandazione comunitaria) vale la libera circolazione nell’area UE.
È ancora l’Istat a segnalare che circa un terzo degli occupati stranieri risulta inserito nel segmento più basso del sistema occupazionale. Le professioni maggiormente svolte sono quelle di manovale edile, bracciante agricolo, operaio nelle imprese di pulizia, collaboratore domestico. Lavori a bassa qualificazione in cui è richiesta spesso forza fisica e resistenza. La quota maggiore di lavoratori stranieri, circa il 40 per cento, si colloca però tra gli artigiani, gli operai specializzati, i conduttori di impianti. Vi rientrano elettricisti, carpentieri, falegnami, operai addetti alle macchine meccaniche, camionisti: professioni in cui il lavoro manuale è comunque preminente.
Il restante 20 per cento degli stranieri si divide tra impiegati, professioni del commercio e dei servizi (commesse, cuochi, camerieri, baristi e magazzinieri) ed i pochi con professioni qualificate (gestori di attività, infermieri, insegnanti di lingue straniere o traduttori).
Anche il tasso di occupazione tra la popolazione straniera è sensibilmente superiore a quello riscontrabile tra la popolazione di cittadinanza italiana: quasi nove immigrati su dieci in età lavorativa hanno un impiego, contro sette su dieci tra gli italiani. Questo vale anche per l’occupazione femminile: le straniere lavorano di più delle italiane. Nel loro complesso, dunque, i cittadini stranieri contribuiscono con un’intensità maggiore degli italiani all’andamento economico. Ciononostante, l’incapacità del nostro sistema produttivo di valorizzare istruzione e professionalità di questi lavoratori produce due fenomeni di segno negativo, come segnalato in un recente studio di Devillanova e Frattini (Università Bocconi). Da una parte, infatti, i paesi di origine vengono impoveriti e privati di risorse ed intelligenze (brain drain) che potrebbero contribuire al proprio svuluppo economico e sociale, dall’altra il nostro sistema economico non è in grado di utilizzare in maniera adeguata l’alta professionalità di cui gli immigrati sono portatori, provocando un ulteriore spreco, non solo di vite e di storie personali, ma anche di risorse (brain waste).
5. In conclusione, e guardando alla sola dimensione italiana, si può provvisoriamente sostenere che dei due fenomeni rilevanti di cui si è fatto cenno (immigrazione e flessibilità), il contributo degli immigrati al miglioramento delle performance degli indicatori del mercato del lavoro è certo e quantificabile con buona approssimazione, il contributo del processo di flessibilizzazione è più difficile da isolare e quantificare.
Nel primo caso, infatti, si tratta di un effetto relativamente facile da isolare: occupazione aggiuntiva (almeno per le statistiche e non nella realtà!) pian piano emersa e contabilizzata a segiuto di azioni legislative (la “sanatoria” del 2002 ed, in parte, i decreti “flussi” varati annualmente). Nel secondo caso, invece, non è lecito nominare come “effetto” occupazionale della flessibilità tipologica la quota di lavoro “atipico” di volta in volta prodotto sul mercato del lavoro. In questo caso la domanda da porsi è se quella frazione di occupazione sarebbe stata prodotta anche senza gli interventi di flessibilizzazione delle tipologie contrattuali. Purtroppo, come già accennato, i contributi empirici che si attengano a questa logica controfattuale sono ancora pochi. In attesa che la letteratura si arricchisca, ci dovremo limitare a guardare l’occupazione prodotta attraverso impieghi “non standard” semplicemente come un “fatto” e non come un “effetto”.
Tavola 2. Forze di lavoro straniere per sesso e ripartizione geografica (migliaia di unità)
Periodo di riferimento Maschi Femmine Totale
15-64 Totale 15-64 Totale 15-64 Totale
Nord
2005 I Trimestre 457 458 261 262 718 720
II Trimestre 571 573 301 301 872 874
III Trimestre 540 540 328 328 868 868
IV Trimestre 533 533 330 331 863 864
2006 I Trimestre 541 541 327 328 868 869
II Trimestre 589 592 380 381 968 973
Centro
2005 I Trimestre 160 160 123 124 282 283
II Trimestre 179 179 148 149 326 327
III Trimestre 164 164 153 153 316 317
IV Trimestre 186 186 161 161 347 347
2006 I Trimestre 191 191 143 143 334 334
II Trimestre 204 204 177 177 381 381
Mezzogiorno
2005 I Trimestre 85 85 57 58 142 143
II Trimestre 88 89 58 58 146 148
III Trimestre 93 97 47 47 140 144
IV Trimestre 98 100 72 72 170 172
2006 I Trimestre 97 97 74 74 171 171
II Trimestre 88 89 64 64 152 153
Italia
2005 I Trimestre 702 702 441 443 1.143 1.146
II Trimestre 838 841 507 508 1.344 1.349
III Trimestre 796 801 527 528 1.324 1.328
IV Trimestre 817 819 563 564 1.380 1.383
2006 I Trimestre 829 829 544 545 1.373 1.374
II Trimestre 881 885 621 623 1.502 1.507
Fonte: Istat
Tavola 3. Occupati stranieri per sesso, e ripartizione geografica (migliaia di unità)
Periodo di riferimento Maschi Femmine Totale
15-64 Totale 15-64 Totale 15-64 Totale
Nord
2005 I Trimestre 430 431 217 218 647 649
II Trimestre 535 536 251 252 786 787
III Trimestre 506 507 290 290 796 797
IV Trimestre 486 486 283 284 769 770
2006 I Trimestre 514 514 287 288 801 802
II Trimestre 559 561 330 331 889 892
Centro
2005 I Trimestre 152 152 101 102 252 254
II Trimestre 167 167 123 124 290 291
III Trimestre 153 153 137 137 290 290
IV Trimestre 176 176 136 136 312 312
2006 I Trimestre 181 181 116 116 298 298
II Trimestre 191 191 152 152 343 343
Mezzogiorno
2005 I Trimestre 77 77 43 44 120 120
II Trimestre 81 83 53 53 134 135
III Trimestre 87 91 39 39 127 130
IV Trimestre 88 90 52 52 140 142
2006 I Trimestre 85 86 62 62 147 147
II Trimestre 82 82 58 58 139 140
Italia
2005 I Trimestre 658 659 361 364 1.020 1.023
II Trimestre 783 785 427 428 1.209 1.213
III Trimestre 747 751 466 466 1.213 1.218
IV Trimestre 750 752 471 472 1.221 1.224
2006 I Trimestre 780 781 465 466 1.245 1.246
II Trimestre 832 834 539 541 1.372 1.375
Fonte: Istat
Tavola 4. Occupati stranieri 15-64 anni per titolo di studio e ripartizione geografica
(migliaia di unità)
Periodo di riferimento Laurea e post -laurea Diploma Licenza media Licenza elementare, nessun titolo Totale
Italia
I Trimestre 113 441 332 134 1.020
II Trimestre 123 518 399 169 1.209
III Trimestre 139 467 431 175 1.213
IV Trimestre 129 473 446 173 1.221
I Trimestre 122 521 434 168 1.245
II Trimestre 169 534 498 171 1.372
Fonte: Istat
1)In riferimento al dibattito assai ricco sul trade-off produzione/occupazione si veda, tra gli altri, Lunghini, L’età dello spreco, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.
2) Si veda, per approfondimenti, la Rilevazione Trimestrale sulle forze di lavoro, Il Trimestre 2006, pubblicata il 20 settembre 2006 (www.istat.it)
3) Un importante e recente contributo sulle dinamiche del mercato del lavoro italiano è il volume curato da Contini e Trivellato, Eppur si muove, Dinamiche e persistenze nel mercato del lavoro italiano, Il Mulino, Bologna, 2005.
4) Si vedano anche, a questo proposito, i numerosi interventi di Pietro Garibaldi su lavoce.info.




























